12 anni schiavo potrebbe, forse dovrebbe vincere l’Oscar come miglior film di quest’anno. Non soltanto perché è un film formalmente impeccabile, ma perché è un film che riesce a utilizzare la potenza del cinema per provare a modificarci, da chi siamo quando entriamo in sala a quando ne usciamo. Il cinema: lo fa offrendo allo spettatore dei dilemmi morali a partire da una percezione estetica. Ogni minuto dei 133 dai titoli di testa a quelli di coda, ci viene posta la domanda: e tu cosa avresti fatto? Prova a immaginarti di essere in una situazione come quella che stai vedendo, come ti sentiresti, cosa penseresti, come ti comporteresti?
La situazione è soprattutto quello che capita a Solomon Nothrup, americano, nero, musicista, benestante, felice marito e padre di famiglia, uomo libero a Saratoga nel 1850, che viene rapito e venduto come schiavo negli Stati Uniti in un Sud dove la schiavitù non era stata ancora abrogata. Il film è la storia di questi 12 anni: tre padroni diversi, i rapporti con i compagni di schiavitù, la liberazione finale.
Steve Mcqueen, regista britannico, nero, quarantacinquenne, ha genialmente scelto di parlare della schiavitù a partire da un uomo comune, un borghese, che si ritrova da un momento all’altro, senza nessun motivo, a perdere la sua libertà. 12 anni schiavo non parla quindi di persone di cui dovremmo avere compassione o nella cui lotta ci immedesimeremmo. Non un nero rivoluzionario, un povero o uno schiavo che si riscatta, non di una vittima di una Generale e quindi Aproblematica Ingiustizia, ma di un uomo che precipita in una condizione. Un uomo solo. Ha scelto fondamentalmente di parlare di noi.
Le scene della vita a Saratoga sono girate con una fotografia da film in costume che fanno assomigliare i primi dieci minuti di 12 anni schiavo a Barry Lindon. Luci naturali, una lentezza della camera che ci dona un senso di pace e di bellezza come se stessimo guardando tutto con il distacco con in quale ci approcciamo ai film storici: sappiamo da che parte stare, sappiamo quale parte della nostra psiche mettere in gioco, quella che si occupa di coscienza civile. All’improvviso Solomon precipita in una stanza buia, legato alle catene, mani e piedi. Un paio di sgherri gli dicono di dimenticarsi della sua identità: ora lui è Platt. La luce cambia, la scena è quella di un film carcerario low-budget. Da qui in poi Mcqueen ci fa perdere le coordinate. E lo fa attraverso tutti gli strumenti che ha in mano: 1) una camera che è come se fossero gli occhi dell’angelo custode di Solomon-Platt, una distanza giusta che permette di cogliere la sua intensità emotiva, ma anche sempre il suo rapporto con quello che gli accade intorno: noi non siamo mai soli quando facciamo delle scelte morali, ma non siamo mai soli anche mentre pensiamo; 2) una serie di performance attoriali mirabili: i candidati all’Oscar Chiwetel Ejiofor (Solomon-Platt), Michael Fassbender (il padrone brutale) e Lupita Nyong’o (la schiava che diventa amica di Platt) fanno un lavoro sul proprio corpo che li rende credibili come figure fuori dal tempo, ma anche i comprimari come gli schiavisti Paul Giamatti e Paul Dano e persino Brad Pitt che si ritaglia un cameo da abolizionista kantiano riescono a bucare lo schermo in un modo semplice e ambizioso: sembrano essere a teatro; questo è possibile perché 3) Steve Mcqueen avvicina noi allo schermo grazie a un’operazione sul suono che da sola vale la visione.
Sono andato a vedere su imdb chi fosse il responsabile del design sonoro, e ci sono almeno trenta nomi coinvolti: non saprei a chi fare i complimenti. Ma – facciamo un esempio – è innegabile che durante una delle scene più forti e giustamente dibattute del film – Platt viene preso e impiccato a un albero, poi il linciaggio viene fermato e lui rimane appeso al cappio con i piedi che sfiorano appena la terra, e rimane per ore così, mentre intorno a lui gli altri neri lavorano, entrano e escono dalle baracche, e i bambini giocano al sole che compie il suo intero arco – , tutto quello che non posso smettere di ricordare è il respiro di Platt e soprattutto il rumore dei piccoli spostamenti dei piedi disperatamente ancorati alla terra. Se un Oscar dovrebbe essere assegnato prima della premiazione ufficiale a 12 anni schiavo è proprio quello per il sonoro: a cui però non è candidato, gli hanno preferito film come All is lost, Gravity, Lo Hobbit, Lone Survivor e Captain Phillips in cui il suono ogni volta è funzionale a un’emozione che dobbiamo provare e che quell’emozione riproduce mimeticamente. In Mcqueen l’utilizzo del suono è invece un interrogativo etico, lo stesso che dicevamo all’inizio: che faresti? Cosa sentiresti? Nel film si può diventare neutralizzati alle urla degli schiavi frustati a sangue, ma commuoversi per piccoli minimi tonfi di un paio di schiavi che crollano sotto il peso della fatica. Sta a noi quale rumore sentire, il nostro stesso udito sceglie, nemmeno la percezione più involontaria è veramente involontaria. Se già in Hunger Mcqueen aveva realizzato metà film praticamente solo con il sonoro, ricreando la sensazione di paura, di isolamento, la violenza palpabile, la fame di comunicazione tra prigionieri delle carceri speciali per i militanti dell’IRA, se già nei primi cortometraggi di video arte aveva ricreato una simile esperienza attraverso dei micro film muti, qui il coprotagonista del film è il suono delle cose. Lo sciabordio dell’acqua sulla chiglia della nave che porta Salomon in Georgia, lo stormire delle foglie continuo che crea un contrasto doloroso tra la condizione infernale degli schiavi e quella irenica degli alberi e delle piante, il silenzio che piomba ogni volta sui personaggi dopo una qualunque delle scene violente – linciaggi, risse, stupri, impiccagioni… – a cui assistiamo.
E se in Hunger la violenza sono il ticchettio dei tacchi delle guardie fuori dalle celle, l’aprirsi e il chiudersi degli spioncini, i muguli dei militanti strozzati, l’acqua della vasca in cui sono affogati, mentre il senso della libertà viene fuori nella meravigliosa scena in cui Bobby Sands (ancora un Fassbender in stato di grazia) discute con il prete della liceità dello sciopero della fame rispetto al volere di Dio, anche in 12 anni schiavo la trasformazione di Solomon-Platt avviene in una scena che ribalta davanti ai nostri occhi per l’ennesima volta la percezione dell’ambiente. Uno schiavo è morto, e gli altri schiavi officiano una cerimonia funebre cantando un blues. Il rigore formale, i suoni soffusi che avevamo ormai assorbito e a cui ci eravamo abituati esplodono in un coro di voci che sovrasta tutto, come in una registrazione su un vecchio nastro. Le voci contro la morte. Solomon-Platt bofonchia all’inizio, non si è mai arreso fino in fondo a essere uno schiavo, e cantare i blues vorrebbe dire cedere. Ma all’improvviso invece canta, canta a squarciagola e in quel momento sceglie insieme a noi cosa provare. Il film così rivela il suo segreto che era stato occultato in tutte le scene in cui Solomon-Platt deve decidere come agire: ribellarsi o no, fidarsi o meno, subire l’ingiustizia o denunciarla… La libertà non è un diritto, sembra dirci McQueen, un diritto naturale come viene sancito dalle costituzioni liberali, da quella inglese a quella americana in primis. Non è qualcosa che abbiamo o non abbiamo, qualcosa che possiamo solo perdere. La libertà è sempre una scelta. La libertà è tale solo se viene da un processo di liberazione, da una comprensione dell’uguaglianza e della pietà. Quando Solomon avrà capito di non essere solo una vittima, ma – anche da schiavo – un uomo che può scegliere, allora questo viaggio all’inferno avrà acquisito il senso non di uno scarto del destino, ma di un’inaspettata redenzione. E noi, dall’altra parte dello schermo, ci sentiremo meno soli.