Giorgio Napolitano e le sue dimissioni

Il fardello del vecchio presidente

Ha accompagnato la sua rigidità, negli anni e col tempo, con una semplicità signorile, devota al culto dello stato, un’incandescente passione che tuttavia oggi deve sentire al tempo stesso come una dissipazione. E dunque, a ottantotto anni, Giorgio Napolitano pensa comprensibilmente alle proprie dimissioni come a una liberazione dalla politica inselvatichita, greve e caotica dell’Italia di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi, di Beppe Grillo e di Angelino Alfano. “Non siamo più dei ragazzini. E c’è un limite a tutto, anche allo spirito di servizio…”, mormora ogni tanto Emanuele Macaluso, l’ultimo dei miglioristi, il vecchio amico del vecchio presidente, l’uomo che ne raccoglie – e condivide – gli sbuffi e le confessioni più riservate, intime.

Ma dove passa Giorgio Napolitano non può esserci disordine. E dunque il presidente si dimetterà, sì, è una decisione presa da tempo, confessata persino pubblicamente, un anno fa: «La mia è una presidenza pro tempore». Ma il presidente vegliardo lascerà la cabina di regia soltanto dopo la riforma della legge elettorale che, lo ha detto anche ieri, va fatta «al più presto». Il carattere, la tempra, la sua stessa biografia gli impongono di completare il lavoro, prima di ritirarsi, malgrado gli acciacchi dell’età. E dunque Napolitano non mollerà prima di aver restituito un po’ di equilibrio al marasma istituzionale italiano: non può, non deve, non vuole lasciare attorno a sé un panorama ancora più confuso di quello che aveva trovato al momento in cui, un anno fa, i leader dei principali partiti italiani, compreso Berlusconi, gli chiesero la disponibilità a essere rieletto. Da qui deriva l’insistenza sulla legge elettorale che «va approvata al più presto». Per lui la politica, anche la più caotica, persino quella che si trova a dover gestire in queste ore dal Quirinale, si scompone e si ricompone sempre in un ordine lineare, rigido, quasi scolastico. E dunque, adesso che Enrico Letta si è dimesso e Matteo Renzi avanza con passo cadenzato verso Palazzo Chigi, il capo dello stato s’immerge nelle acque tumultuose dei partiti e le rimescola senza pietà. Sperando che sia l’ultima volta.

Avvolto dalla cantilena nasale di Grillo e del Cavaliere – “golpe”, “colpo di stato”, “attentato alla Costituzione” – l’anziano presidente è dunque spesso tentato di mandare tutti a quel paese. Testa ordinata e pignola, lui cerca che i dati della sgangherata politica quadrino tra loro secondo un rigido geometrizzarsi, ma di fronte a sé riconosce soltanto una capitale incoerenza, personaggi che considera storti, anguilleschi, e che devono dargli – così vuole la leggenda di Palazzo – anche un po’ di fastidio fisico. E così l’idea di lasciare tutto, di ritirarsi all’improvviso, talvolta lo ha sfiorato, forse avvolto, ma mai vinto, perché anche le dimissioni, finché saranno una fuga dal dovere, gli sono estranee come gli sono estranei Berlusconi, Grillo e Renzi. E non è la malagrazia a infastidirlo, ma – dicono – la malafede. Perché fu proprio il Cavaliere, un anno fa, a prendere la salita che porta al Quirinale per pregare Napolitano di ricandidarsi alla presidenza della Repubblica. Il presidente aveva deciso di abbandonare la politica, e soltanto l’esito confuso delle elezioni di febbraio 2013, con le insistenze disperate di Berlusconi e di Bersani, lo convinsero a rimanere lì dove stava, al Quirinale, stanco e malconcio com’era.

Da allora a oggi non è cambiato molto, e l’unica pressante preoccupazione del presidente adesso sembra quella del sistema istituzionale. Lui non considera le dimissioni di Letta come un suo personale fallimento, e non si mostra nemmeno troppo interessato alla natura – e alla qualità – del giovane Renzi. Per il capo dello stato, Letta e Renzi e Monti sono uguali: sue creature, dei premier da incaricare e guidare tra le pulsioni cialtronesche della politica impazzita. Napolitano rispetta gli equilibri parlamentari e i rapporti di forza tra i partiti, per quanto selvaggi e sconclusionati debbano sembragli questi equilibri e questi rapporti di forza. Il suo unico vero cruccio è che il sistema funzioni, cioè che all’Italia vengano restituite regole certe sul funzionamento del suo sfasciatissimo sistema istituzionale. E dunque vive queste sue ore al Quirinale sperando che possano essere le ultime da presidente della Repubblica, sognando la riforma elettorale e quella del Senato. Farà di tutto per ottenerle, per conquistare e restituire l’ordine all’Italia pazzotica. Poi, finalmente, sarà libero. Missione compiuta. Dimissioni.

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