Via Sant’Andrea delle Fratte, il Nazareno, è una di quelle strade del centro di Roma che scende come un’ansa di fiume verso il quadrilatero dei palazzi della politica, c’è la sede del Partito democratico e poco più avanti, protetti da un bel portone e da una facciata gentilizia, ci sono anche gli uffici che Fedele Confalonieri, a Roma, divide con Gianni Letta. Questi uomini così diversi tra loro amano Berlusconi con una sorta d’orgogliosa disperazione, e per questo vogliono salvare il Cavaliere a modo loro, anche da se stesso, se necessario. I loro incontri avvengono in un silenzio di roccaforte, disteso e uguale, intervallato da battute di spirito confidenziali, come succede solo tra vecchi amici, intimi, solidali. Ed è lì, al Nazareno, tra queste personalità che non sono né falchi né colombe, ma consanguinei del Cavaliere, legati a Berlusconi da una fedeltà incoercibile, che la singolare scissione di Alfano, i rapporti con Renzi, e il sostegno alla grande coalizione di Letta il Giovane, sono stati argomento di lunghe, animate, dubbiose conversazioni, sempre precipitate su un piano di avvolgente condiscendenza nei confronti delle larghe intese, del governo e della possibilità di recuperare un posto al sole collaborando con il giovane e ribaldo segretario del Pd.
Adesso hanno vinto loro, pare. Mediaset va forte in Borsa malgrado le difficoltà di cassa, lo spread è basso, il vento contundente della speculazione finanziaria fa capolino soltanto come un ricordo lontano, e come dice il banchiere di famiglia, Ennio Doris, altro consigliere dai pensieri sempre aggraziati: “L’Italia ha bisogno di uno o due anni di stabilità. E’ un problema di sistema. Sono d’accordo con il presidente della Repubblica quando dice che senza unità e senza coesione non c’è via d’uscita dalla crisi economica”. E la voce del portafoglio, si sa, è sempre stata persuasiva alle orecchie del Sovrano di Arcore. Così adesso è a Segrate e a Largo del Nazareno, a casa Mediaset, dunque, che sono tornati il cuore e la mente del berlusconismo.
Gli consigliarono di sostenere Monti, e lui un po’ lo fece e un po’ no. Lo convinsero a entrare nella grande coalizione di Enrico Letta, e lui li ascoltò ma poi fece di testa sua spingendo la rabbia per la condanna in Cassazione fino ad uscire dal governo, fino agli strepiti, al rischio dell’irrilevanza, al divorzio con Alfano, e all’imitazione dei gesti e delle parole grevi di Beppe Grillo. E per mesi, come in un cieco furore, lui si faceva sussurrare parole di veleno dai falchi che a Roma abitano il suo grande Castello, da Denis Verdini e da Daniela Santanchè: “via dall’euro”, gli dicevano, “chi se ne importa dello spread”, lo spingevano a pensare, “dobbiamo togliere voti ai Cinque stelle”, lo consigliavano, “Napolitano è un golpista”, lo incitavano.
E per mesi Silvio Berlusconi ha trovato la sua misura nella dismisura, costeggiando gli oscuri confini dell’estremismo e della logica antisistema. Incerto, perso, condannato, interdetto e sempre meno domine di quegli equilibri politici che in vent’anni s’era ormai abituato a considerare poco più che fili da tirare con agilità di mano furba e felice. Ma adesso il clan familiare e aziendale che da sempre lo circonda, lo protegge e lo consiglia con quella gommosa morbidezza che al centrodestra in passato è valsa il nomignolo di “partito di plastica”, è tornato a dirigere la pazza orchestra di sentimenti che è la vita per il Cavaliere. “Silvio è stato in black out”, ha detto Fedele Confalonieri, l’amico fraterno, al Corriere della Sera, come a voler annunciare il ritorno del vero Silvio sul proscenio confuso dell’Italia politica.
E dunque Mediaset e Confalonieri, il banchiere di casa Doris e Gianni Letta, gli uomini dell’azienda, i gestori della roba, il portafoglio e il casato, hanno recuperato le redini che sembravano aver perso nel manicomio di contegni del Sultano di Arcore. Eclissati e confusi, tacciono i falchi un tempo potentissimi, e solo Raffaele Fitto, malconcio eppure mai domo, dà voce a un sentimento di rivalsa, a un mormorare sotterraneo e irrancidito, allo scontento degli uomini che hanno incarnato la breve stagione della rabbia, della guerra con Alfano e della rotta contro i lidi troppo placidi della grande coalizione. Ma quel periodo è chiuso, almeno per adesso. Ed ecco dunque rinfoderato ogni proposito di battaglia e di sfascio.
Berlusconi si fa ritrarre invecchiato dal Sunday Times, per com’è davvero quando si mostra senza trucco nel tepore tranquillo di casa. E incline com’è all’immedesimazione, adesso il Cavaliere si adatta dunque anche fisicamente a un ruolo che lui definisce, con ludica compenetrazione d’attore, da “padre della patria”. Ecco così sorgere l’accordo con Renzi sulla riforma elettorale, e tutto un sistema di delicate sordine e di diplomazie che all’improvviso avvolgono le parole e le mosse del Cavaliere, come un incantesimo di seta. Napolitano non è più golpista, e dunque il mai amato presidente della Repubblica scompare dalle parole del Cavaliere, che ora si limita a inserire quello che prima chiamava “il mio più acerrimo nemico”, semplicemente nella lunga teoria dei tanti presidenti “di sinistra”.
Elogia il bipolarismo, invita ad abbandonare le estreme, conduce personalmente la campagna elettorale in Sardegna, riscopre persino il sorriso birbante di barzellettiere, d’intrattenitore e impresario d’avanspettacolo (Questa la barzelletta raccontata ieri, in Sardegna, per sostenere il suo candidato Ugo Cappellacci: “Un giorno un uomo di nome Giancarlo Merda si presentò all’ufficio anagrafe e mi chiese di cambiare nome. In quindici giorni ottenni di farlo e gli chiesi come si volesse chiamare. ‘Ugo Merda’, mi disse”).
E al suo fianco siede Giovanni Toti, ormai ex giornalista, un uomo di Mediaset – guarda caso – e a lui che tocca occupare quel posto da sempre così ambito dai cortigiani di Arcore: la sedia alla destra del padre. Cambia volto, modulazione di voce, castellani e consiglieri. Persino il leader del centrosinistra, Renzi, per lui adesso non è più un nemico e nemmeno un avversario, ma un “competitor”, espressione che Berlusconi mai avrebbe utilizzato per riferirsi a Bersani, Prodi, Veltroni o D’Alema. Dietro quest’ultima acrobazia del Cavaliere rinato, ben occultata alle spalle di questo inconoscibile e camaleontico Sovrano capace di misurarsi nella recitazione di mille maschere, ci sono la sua azienda e i suoi interessi più radicati. Vogliono la pace, chiedono tranquillità, sognano il ritorno alle modeste e persino un po’ mediocri certezze di un’Italia che ancora non conosceva la crisi e il suo volto depresso e sguaiato.