Il contesto europeo si caratterizza per una marcata impronta mercantilistica: tutti i Paesi, dalla Grecia alla Germania, perseguono simultaneamente modelli di crescita guidati dalle esportazioni. Cercare di guadagnare competitività gli uni sugli altri ne è la naturale conseguenza. In assenza di cambio, la svalutazione interna è il meccanismo attraverso cui si realizza questo processo. La riuscita, in termini di export, di queste politiche implica spostamenti di risorse dalla imprese in contrazione a quelle in espansione. Per assecondare tale meccanismo sarebbero necessarie istituzioni efficaci di assistenza universale e di reinserimento professionale per chi perde il posto di lavoro. Soprattutto, occorrerebbe che emergesse un numero sufficiente di imprese in espansione, per assorbire le riduzioni di manodopera da quelle in contrazione. Credit crunch ed esiguità della ripresa fanno venire meno questa condizione. Il taglio del cuneo fiscale può essere una via alternativa, ma richiede il reperimento di ingenti risorse se si vuole conciliare l’obiettivo della competitività con quello del sostegno del reddito delle fasce più deboli.
Può sembrare paradossale, ma la partita della competitività di costo non si gioca tanto con i Paesi emergenti, quanto in Europa, ovvero nel cuore dell’area di più antica industrializzazione, altamente integrata, dove si confrontano sistemi maturi, tra loro simili per tecnologia, risorse, gusti, livelli di sviluppo. Ciò non deve sorprendere. Rispetto alle economie emergenti non c’è abbassamento di costo che tenga: per le produzioni dei Paesi maturi che concorrono direttamente con quelle degli emergenti, la competizione non si fa sui prezzi, ma sulla differenziazione qualitativa e sugli investimenti negli asset cosiddetti invisibili (brand, marketing, assistenza post-vendita) che definiscono il contenuto di servizi del prodotto esportato. La rat race della competitività di costo è dunque un fatto fondamentalmente intra-europeo, derivante dalla necessità di correggere gli squilibri commerciali nell’eurozona e alimentata dalle modalità di aggiustamento vigenti nell’area che vedono gli sforzi di correzione affidati esclusivamente ai Paesi in deficit.
In un contesto in cui le economie in avanzo non riducono il proprio squilibrio e continuano, anzi, a perseguire il contenimento delle dinamiche interne di costo, nessun sistema può sentirsi escluso dalla corsa per la competitività. Anche l’Italia, che negli anni passati ha subito una perdita competitiva inferiore a quella degli altri periferici, ne risulta coinvolta: rimanere fermi quando tutti si muovono per avvicinarsi al benchmark tedesco può equivalere a perdita di terreno. L’ambiente europeo in cui siamo integrati si contraddistingue, dunque, per una netta impronta mercantilistica, accentuatasi con la crisi: tutti i Paesi sono chiamati a imitare la Germania, perseguendo contemporaneamente un modello export-led growth. Cercare di guadagnare competitività gli uni sugli altri non può che esserne la logica conseguenza e, in assenza di cambio, la svalutazione competitiva interna è il meccanismo attraverso cui questo processo si realizza.
Come si espletano gli effetti delle svalutazioni interne nelle economie?
Prima di tutto si deve tenere conto che le imprese non sono tutte uguali tra loro, ve ne sono di meno e di più produttive, che hanno costi di produzione più o meno alti, manager più o meno abili, organizzazioni del lavoro più o meno efficienti. Tali differenze si evidenziano ad analisi anche molto disaggregate. Esse si riscontrano dentro i settori, tanto di vantaggio che di svantaggio comparato, e all’interno delle classi dimensionali. Non c’è nulla, quindi, di più lontano dalla realtà dell’idea di un’impresa omogenea, rappresentativa del comportamento di tutte.
Queste diversità danno luogo a distribuzioni statistiche estremamente sbilanciate: le imprese “buone” sono relativamente poche, quelle “meno buone” relativamente molte. Un modo per evidenziare questo fenomeno è verificare il peso degli esportatori nella popolazione delle imprese italiane. Coloro che vendono all’estero costituiscono, infatti, la componente più efficiente dei produttori, quelli in grado di coprire i più elevati costi di ingresso nei mercati internazionali e di rimanere pur sempre profittevoli. La tabella 1 mostra per l’Italia che le imprese esportatrici sono una relativa minoranza nel tessuto manifatturiero, rappresentando circa il 20% dei produttori. Questa non è, però, una peculiarità solo italiana. Anche nelle altre grandi economie, come Germania e Stati Uniti, gli esportatori sono minoritari: vendere all’estero è più difficile e può essere alla portata solo di pochi. Quel 20% di esportatori italiani produce, tuttavia, circa l’80% del valore aggiunto e del fatturato complessivi dell’industria: una minoranza, dunque, decisiva per i risultati economici aggregati. La tabella 1 mostra un altro interessante fenomeno: i grandi esportatori, quelli che sono slegati dagli andamenti del mercato interno, sono una frazione ancor più bassa della popolazione dei produttori, circa l’1% se si considerano le imprese che indirizzano all’estero oltre il 75% del fatturato, circa il 2% quelle che ne vendono oltre il 50%. Questa è un’altra prova dell’estrema asimmetria della distribuzione dei produttori: i migliori, che esportano la maggior parte di ciò che producono, sono molto pochi; a essi è, però, attribuibile la gran parte del valore delle esportazioni manifatturiere italiane.
Lo sbilanciamento che caratterizza la diffusione delle imprese più o meno “buone” nel tessuto economico è illustrato nella figura 1. In essa si esemplifica una ipotetica distribuzione di frequenza dei produttori in funzione dei loro costi unitari del lavoro per unità di prodotto (Clup): molti produttori hanno costi alti, pochi hanno costi bassi, pochissimi hanno costi molto bassi. Si rappresenta anche, con la retta verticale tratteggiata, un ipotetico Clup dei concorrenti espresso nella moneta nazionale del Paese. È l’asticella della competitività con cui devono confrontarsi le imprese: solo quelle che hanno costi unitari inferiori a questa soglia (a sinistra dell’asticella) possono competere con successo all’estero.
Fig. 1 – Esempio di una distribuzione di frequenza delle imprese per Clup; caso svalutazione cambio
Fonte: Nomisma
In questo quadro, una svalutazione del tasso di cambio tenderebbe ad avvantaggiare tutti i produttori sostenendo le produzioni nazionali nel mercato globale e proteggendole dalle importazioni in quello domestico. Essa non determinerebbe, dunque, sostanziali modifiche nella distribuzione delle imprese, ma avrebbe, come si mostra nella figura 1, l’effetto di aumentare i costi di produzione dei concorrenti espressi nella moneta nazionale, spostando verso destra l’asticella della competitività e consentendo a un maggior numero di produttori di affacciarsi con successo all’estero; l’export crescerebbe per l’ampliamento dei soggetti in grado di operare nei mercati internazionali.
In assenza del tasso di cambio, non potendosi muovere l’asticella della competitività, la svalutazione deve essere perseguita esclusivamente con l’abbassamento dei costi interni di produzione. Ciò viene realizzato attraverso compressione della domanda interna e indebolimento del mercato del lavoro, tanto più prolungato quanto più rigidi al ribasso sono i costi di produzione. Come illustra la figura 2, la svalutazione interna sostituisce lo spostamento verso destra dell’asticella della competitività, che si verifica con il deprezzamento del cambio, con lo slittamento verso sinistra dell’asticella dei costi medi di produzione interni. Tuttavia, data la forte asimmetria della distribuzione delle imprese, i costi medi di produzione nazionali sono un indicatore povero della performance competitiva. Può, infatti, avvenire che i costi scendano in media senza che si evidenzino significativi incrementi nell’export. Perché questi si realizzino in misura apprezzabile e la svalutazione interna abbia quindi successo, occorre che l’abbassamento del costo medio di produzione sottenda una sostanziale modifica nella distribuzione delle imprese con una riallocazione di risorse da quelle peggiori a quelle migliori e il conseguente l’ingrossamento della “coda” delle imprese più competitive. Nella figura 2, una svalutazione interna di successo è rappresentata dalla modifica nella distribuzione delle imprese dalla curva continua a quella tratteggiata, con rigonfiamento della popolazione delle imprese in grado di esportare grazie a costi unitari inferiori ai concorrenti.
Fig. 2 – Esempio di una distribuzione di frequenza delle imprese per Clup; caso svalutazione interna
Fonte: Nomisma
Queste considerazioni hanno rilevanti implicazioni di policy. Poiché, come visto, le svalutazioni interne hanno successo quando comportano riallocazioni di risorse dalle imprese peggiori alle migliori, esse dovrebbero accompagnarsi a misure che facilitino il ricambio tra unità produttive in contrazione e in espansione. Più che alla conservazione di posti di lavoro in aziende in difficoltà strutturale (attraverso strumenti come cassa integrazione in deroga e straordinaria), si dovrebbe dunque puntare a favorire la fluidità dei passaggi di lavoratori verso quelle di successo, che crescono principalmente sui mercati internazionali. Tuttavia, perché tale meccanismo funzioni sarebbero necessarie alcune condizioni che non sono presenti nell’attuale contesto italiano. In primo luogo occorrerebbero istituzioni efficaci di assistenza universale e di aiuto attivo al reinserimento professionale per chi perde il posto di lavoro. L’Italia ne è, in varia misura, priva; la loro costruzione e implementazione comporterebbe significativi sforzi finanziari e di investimento in efficienza organizzativa. In secondo luogo, occorrerebbe che un elevato numero di imprese risultasse effettivamente in espansione, per poter assorbire le espulsioni di manodopera da quelle in contrazione. Il credit crunch e l’esiguità delle prospettive di ripresa fanno venire meno questo requisito. C’è dunque un rischio che, persistendo la stretta del credito, la base produttiva nazionale si restringa oltre il dovuto lungo il percorso di svalutazione interna, riflettendo il prevalere degli effetti di distruzione su quelli di creazione.
Date le difficoltà della situazione, la riduzione del costo del lavoro attraverso l’abbattimento della sua componente fiscale potrebbe costituire la strada alternativa nel perseguire una svalutazione interna. L’efficacia di un simile provvedimento dipende, però, in modo cruciale dalla dimensione del taglio che si riesce a realizzare. Esso richiederebbe il reperimento di ingenti risorse finanziarie se si volesse poi conciliare l’obiettivo della competitività di costo, dettato dall’aggiustamento europeo, con quello altrettanto pressante del sostegno delle fasce più deboli della popolazione, imposto dall’aggravamento della condizione economica e sociale di molte famiglie.
La politica economica per la ripresa continua, dunque, a dover fare i conti con strettissimi vincoli di bilancio. Ridefinizione europea di questi ultimi o forti manovre redistributive sembrano le due uniche strade disponibili per imboccare un percorso diverso da quello della tenuta dei conti e dell’affidamento agli “spiriti animali” (condito con il mantra delle riforme strutturali) che ha caratterizzato l’approccio di politica economica degli ultimi anni.
* capo economista di Nomisma