Populismo contro Populismo

Populismo contro Populismo

L’uno promette ottanta euro in busta paga agli italiani, l’altro propone uno stipendio pagato dallo stato a ogni cittadino, il giovane e glabro vorrebbe rientrare dal debito pubblico vendendo quattro auto blu su e-Bay, l’anziano e barbuto vorrebbe risolvere la crisi uscendo dall’euro. E insomma è vero che c’è la campagna elettorale per le Europee e che la politica italiana si è abituata da tempo allo spettacolo delle promesse spavalde e irrealizzabili, agli annunci miracolosi e ai prodigi dello sciogli pancia di Wanna Marchi. Eppure questa campagna elettorale, così pirotecnica e nondimeno torpida, rivela un dettaglio capace di riassumere l’essenza del tempo, e cioè che la sparata a effetto, il grande annuncio, lo spot, affratella Matteo Renzi e Beppe Grillo, fluisce come un dono nelle parole di questi due grandi leader in ascesa, che dunque si assomigliano parecchio. Entrambi sono l’eterna tradizione della politica italiana, che fu, sì, il clientelismo di Andreotti, ma anche la specialissima abilità di lisciare sempre per il verso giusto i (mal)umori di un popolo che non va mai governato ma sempre accontentato. Un popolo che adora il suono forte delle parole, ma rifugge a ogni logica di serietà e sacrificio, dunque inneggia a Mussolini e alla guerra, ma poi perde la guerra e appende Mussolini per i piedi; trema e s’affida a Mario Monti ma poi lo tritura e lo dileggia, cerca nell’inettitudine altrui la consolazione alla propria tragica inadeguatezza. E fu Vamba, il padre della nostra satira, lo scrittore che sta all’Italia come Swift all’Inghilterra e come Bierce agli Stati Uniti, a raccontare l’essenza della politica italiana e del suo popolo con la storia dell’onorevole Qualunquo Qualunqui, rappresentante del collegio di Dovunque e fedele combattente nel partito dei Purchessisti: il nonno di Renzi e di Grillo, il padre di Berlusconi, il più amato dagli italiani perché ne rappresentava l’essenza più vera.

E certo, mai Renzi direbbe che gli immigrati irregolari sono “da mettere in galera”, come fa invece Grillo. E mai Renzi userebbe il turpiloquio, cioè l’anticamera della violenza, la più miserabile delle scorciatoie del pensiero, per liquidare i suoi agguerriti avversari politici. Soni simili ma diversi. Grillo e Renzi usano entrambi Internet, ma per Grillo il web è esattamente quello che un tempo erano le birrerie per Bossi e Maroni, un posto dove stordirsi di stupidaggini, alito pesante e pensieri leggeri. Eppure c’è qualcosa che rende fratelli Matteo Renzi e Beppe Grillo, gemelli d’Italia. La spettacolarizzazione della vita pubblica è modernità, lo sono la chiamata diretta agli elettori e la personalizzazione della politica, cioè la cifra di Renzi e di Grillo, che sono dunque, piaccia o non piaccia, modernità. Ma l’occidente anglosferico, la democrazia del consumo e della pubblicità, in Italia inevitabilmente si maccheronizzano, si autoriducono a forme d’imitazione macchiettistica.

Dunque il Jobs Act qui da noi diventa la mostarda di Alberto Sordi e la digital democracy di Grillo e Casaleggio assomiglia più alla fontana di Trevi di Totò che alle visioni futuristiche di Google e della Silicon Valley. Insomma più che Thomas Jefferson il modello della penisola rimane un Juan Peròn vestito d’inadeguatezze alla vaccinara. Assuefatti alla sparata berlusconiana del “milione di posti di lavoro”, al marketing creativo che fa sorridere i giornali stranieri, alle idee strampalate ­dell’“aboliremo Equitalia”, di fronte agli italiani si para un mondo d’invenzioni bizzarre come quella del tale che aveva inventato un’ora che dura mezz’ora o come quella dei cinesi che hanno inscatolato l’aria di montagna. Renzi e Grillo rappresentano insomma la continuità, la stravaganza che si è fatta abitudine, svelano l’Italia incapace di superare l’anomalia spettacolare del berlusconismo, un paese che cerca faticosamente un contravveleno, un pizzico di normalità che però non arriva mai.

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