La rottamazione può attendere. Al primo vero esame, la tornata di nomine nelle controllate pubbliche, Matteo Renzi e il suo governo scelgono capi azienda in sostanziale continuità (Descalzi all’Eni, cioè il delfino dell’uscente Paolo Scaroni, è la dimostrazione plastica) con le gestioni precedenti e, al piano di sopra, presidenti donne ma tutt’altro che nuove. Dov’è la novità? Dove sono le scelte sorprendenti promesse dal premier?
Se la discontinuità è rappresentata dal filotto di donne approdate al vertice di Eni, Enel, Poste e Terna, stiamo freschi. Almeno per due motivi. Il primo è l’ipocrisia di questa scelta, furbetta e mediatica: se davvero si vogliono promuovere meriti e talenti “rosa”, com’è giusto e naturale che sia, colpisce che nessuna delle prescelte sia finita sulla poltrona operativa di amministratore delegato. Con Renzi si è passati in un baleno dal maschilismo più arcigno alle quote rosa ornamentali, le donne in posizioni di vertice come pennacchio da parata, in funzione di garanzia. Viva le donne basta che non comandino. Certo è un primo passo rispetto al deserto precedente ma da chi si “vende” come innovatore ci saremmo aspettati molto di più e di diverso da una concessione allo spirito dei tempi.
Il secondo motivo è invece sul merito delle prescelte: davvero non c’erano altre manager, imprenditrici o professioniste più meritevoli delle solite note? Per stare ai due profili più conosciuti, Emma Marcegaglia (Eni) viene da un quadriennio alla guida di Confindustria tutt’altro che esaltante: sotto la sua presidenza c’è stata un’emorragia di imprese note uscite dall’associazione (Fiat in testa), il Sole 24 Ore ha smesso di dare dividendi all’azionista e ha imboccato una crisi verticale, ha lasciato un movimento balcanizzato, spaccatosi a metà sul successore Squinzi (da lei appoggiato) contro Bombassei e diviso tra aziende pubbliche e private, grandi e piccole, energivore e non, manifatturiere e terziarie senza dare mai l’impressione di voler superare lo schema vetero della concertazione contro cui, lo stesso Renzi, dice di battersi. Il fantasma del conflitto d’interesse fa il resto visto che l’azienda di famiglia (Marcegaglia Spa) ha da anni rapporti con Eni e, in passato, è rimasta coinvolta in vicende giudiziarie con la controllata Enipower.
A sua volta Luisa Todini (Poste) è forse nota per aver venduto qualche anno fa l’azienda di famiglia (Todini costruzioni generali) ai Salini (che oggi hanno deciso di venderla a sua volta), per le comparsate nel salotto di Ballarò, per essere nel cda della Rai, per guidare “il foro di dialogo italo–russo” voluto nel 2004 da Berlusconi e Putin e aver fatto politica proprio in Forza Italia (da eurodeputata). Imprenditrici a parole, insomma. Vedremo, nel caso di Marcegaglia, se almeno riuscirà a farsi dare il riporto dell’audit negato da Scaroni al suo predecessore Recchi, come suggerisce il presidente della Commissione Industria del Senato, Massimo Mucchetti: l’audit è importante perché «serve ad aprire i cassetti di Eni. Per esempio quelli della sede di Mosca. Il rinnovamento sarà totale solo se Descalzi non li vorrà tenere chiusi. E se correggerà la strategia scaroniana basata sulla finanza come si vede dai conti degli ultimi anni».
E qui arriviamo all’ultima morale che possiamo trarre da questa prima tornata di nomine renziane. Il premier ha il vento in poppa, ha indubbiamente velocizzato il quadro di una politica sclerotica e ingessata portando energia e dinamismo, il suo populismo light piace agli italiani così come l’enfasi sulla parità di genere che sfodera in ogni occasione: nel suo governo, nel momento di scegliere i capilista Pd alle Europee (cinque donne su cinque). Ma sbaglia se pensa che l’innovazione passi dal sedersi lui nella stanza dei bottoni continuando a dialogare con il sistema costituito (e i nomi di queste nomine lo dimostrano). Rottamare vuol dire cambiare gli interlocutori, portare idee, interessi, regole e valori nuovi dentro le istituzioni, in posizioni di potere e di vera responsabilità. Altrimenti tanto valeva tenersi i parrucconi…