Pomodoro da industria, l’Italia finalmente si organizza

Pomodoro da industria, l’Italia finalmente si organizza

In Italia il settore del pomodoro da industria tiene, pur vedendo diminuire il numero dei lavoratori. Negli ultimi anni è calata anche la produzione, ma il nostro Paese è tornato a essere il secondo “trasformatore” mondiale dell’ortaggio rosso. La crisi dei consumi interni c’è e stimola a investire sempre di più sull’export, che vale circa il 55 per cento. Tra i problemi principali le organizzazioni di categoria citano contraffazione, difficoltà di accesso al credito e costi di energia e materie prime. Un’occasione importante è attesa tra un anno, con l’Expo di Milano: dalle aziende del comparto emerge speranza, ma anche qualche preoccupazione sulle spese da sostenere per l’evento.

Reti imprenditoriali

Il pomodoro da industria è coltivato con l’obiettivo di vendere pelati, conserve, polpe, passate e così via. A fine aprile 50 aziende di trasformazione e 21 organizzazioni di produttori si sono unite nel Polo Distrettuale del Centro Sud Italia. La sua presenza si aggiunge a quella del Distretto del Nord, che conta 60 associati. Insieme le due aggregazioni rappresentano la grande maggioranza del settore. Della prima fa parte l’Aiipa, Associazione italiana industrie prodotti alimentari. Secondo i suoi dati nel 2004 la superficie italiana usata dal comparto era di 88mila ettari, per un totale di sei milioni e 400mila tonnellate di produzione. Nel 2012 gli ettari erano diventati circa 62mila, e le tonnellate quattro milioni e 670mila. «Per alcuni anni il pomodoro da industria ha avuto aiuti comunitari – dice Guido Conforti, responsabile del settore prodotti vegetali di Aiipa. – Questo ci ha permesso di vendere anche semilavorati a industrie che li trasformano in ketchup o prodotti simili. In questo ambito specifico sentiamo molto la concorrenza straniera, e solo il sostegno di Bruxelles ci consentiva di resistere. Quando l’appoggio è venuto meno la produzione è calata».

A quella diminuzione, spiega Conforti, non ne è corrisposta una in termini di fatturato. Secondo la sua associazione il giro d’affari legato alla prima fase di trasformazione del pomodoro sfiora i due miliardi annui. Se si considerano anche i passaggi successivi, che portano a confezionare polpe e passate, la cifra si avvicina a due miliardi e mezzo. Numeri più alti arrivano dall’Anicav, Associazione nazionale industriali conserve alimentari vegetali, che fa parte del Polo Distrettuale appena nato. In questo caso il dato 2013 parla di due miliardi e 300 milioni nel solo centrosud, che avrebbe raccolto oltre il 65% del fatturato nazionale.

Più tecnologia, meno addetti

Di sicuro l’Italia occupa uno spazio importante nel contesto della produzione globale. Secondo l’Aiipa ne genera il 12,5%, e negli ultimi anni è tornata a essere il secondo trasformatore mondiale dopo gli Stati Uniti: merito del contro-sorpasso sulla Cina, che ci aveva superato. I lavoratori nel nostro Paese sono decine di migliaia, divisi tra fissi e stagionali. L’Anicav dice che al centrosud i primi sono circa 8mila, i secondi 27mila. Cifre a cui va sommato l’indotto di officine meccaniche, imballaggi, vivai, distribuzione e logistica. Le due organizzazioni di categoria spiegano che negli ultimi anni gli addetti sono leggermente diminuiti: si parla di un calo fisiologico legato ai progressi tecnologici e di uno scenario di forte competizione che spinge le aziende ad aggregarsi, riducendone il numero complessivo.

E quanto ha inciso sul settore la crisi dei consumi? «Non particolarmente – dice Conforti –. In questo comparto pesa molto l’export, che ha continuato a tirare abbastanza». La quota di produzione destinata all’estero supera di poco il 50%, con punte del 60 per le aziende del Centro-Sud. «In una fase come questa – spiega Matteo Falcucci, che fa parte del comitato di coordinamento provvisorio del Polo del Centro-Sud – stiamo spingendo ancora di più sulle esportazioni. I mercati principali sono da sempre i Paesi europei (Germania, Gran Bretagna e Francia), seguiti da Stati Uniti e Giappone. Poi ci sono gli emergenti, come la Russia».

Verso Expo

L’associazione cita diverse difficoltà con cui devono confrontarsi le aziende italiane, tra cui quelle di accesso al credito e la contraffazione. Conforti invece sottolinea gli alti costi di energia e materie prime. «Abbiamo anche due vantaggi, però: una grande capacità innovativa e l’apprezzamento di cui gode il made in Italy». Data la crisi generale, Falcucci dice di sperare che nei prossimi mesi occupazione e fatturato del comparto restino stabili. Poi arriverà l’esposizione di Milano. Falcucci assicura che il settore sarà tra i protagonisti del progetto Federalimentare4Expo, «che prevede divulgazione e valorizzazione dell’immagine dell’industria del cibo, dei suoi prodotti e dei marchi che ne rappresentano la storia e ne garantiscono l’autenticità».

Conforti dice che al momento le aziende sono tentate dall’evento, ma anche preoccupate dai costi che dovranno sostenere per partecipare. «Non hanno ancora chiaro che benefici ne ricaveranno. Secondo me sarà una grande occasione. Il consumo dei derivati del pomodoro italiano viaggia sulle gambe dei turisti: vengono qui, tornano a casa loro e iniziano a comprare i nostri prodotti. Per il comparto il meccanismo ha funzionato molto con Giappone e Russia. Se riuscissimo a far fare lo stesso percorso ai cinesi, saremmo sommersi di lavoro». 

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