Qualche decennio fa il distretto fiorentino del cappello contava circa 150 aziende, che davano lavoro ad almeno 1.200 persone. Oggi i numeri si sono ridotti a un terzo. Il fatturato complessivo si aggira sui 100 milioni l’anno; la maggior parte della produzione finisce all’estero, ed è destinata al mondo del lusso e della moda. Il mercato è cambiato molto dai tempi d’oro, quando nell’area della città toscana erano attive migliaia di “trecciaiole”, le donne che intrecciavano paglia per i copricapi. Il ridimensionamento ha fatto sì che restasse in vita solo parte delle imprese presenti: oggi la loro ricetta riunisce qualità, design, differenziazione e marketing.
Il nome da cui bisogna partire è quello di Domenico Michelacci (a cui è stato dedicato un museo a Signa, Firenze), l’uomo che nel ’700 inventò una tecnica di coltivazione del grano finalizzata a produrre non pane, ma cappelli. «La tradizione che ne seguì raggiunse il massimo sviluppo agli inizi del ‘900 – racconta Giuseppe Grevi, presidente del consorzio “Il Cappello di Firenze”. – Negli anni ’30 i copricapi per uomini iniziarono a cadere in disuso, e le attività si concentrarono su quelli femminili. Negli anni ’60 ci fu un nuovo e ultimo boom, poi il declino. Ora siamo in un momento abbastanza buono, in cui il prodotto sta tornando un po’ di moda».
Il consorzio conta 18 aziende, che sommate alle altre della zona diventano circa 50. «Negli anni ’60 erano il triplo, e lo stesso vale per i lavoratori, che oggi sono più o meno 400. L’ultimo decennio non è andato malissimo, ma i due anni appena passati sono stati difficili. Tre nostri vecchi associati hanno chiuso». Grevi dice che il fatturato del distretto si aggira sui 100 milioni annui, con almeno il 70% di export. «Al momento i Paesi più redditizi sono Giappone e Stati Uniti, e iniziamo ad affacciarci in Cina e Corea».
Come ha fatto a restare sul mercato chi ha resistito nel corso degli anni? «Cerchiamo di differenziarci in qualità e soprattutto design, con collezioni sempre nuove e tecniche sofisticate. Alcuni hanno allargato il campo della produzione, investendo su borse, abbigliamento e accessori. La lotta per non sparire ci ha temprato così tanto che ci inventiamo qualsiasi cosa per mandare avanti le fabbriche. Parliamo di imprese familiari, con grande amore per questo bel lavoro e un legame di sangue che unisce titolari e società».
Chi è il cliente-tipo delle aziende locali? «C’è chi usa il proprio marchio e vende a boutique e negozi del mondo del lusso; altri lavorano per grandi firme internazionali. In ogni caso il livello di qualità è almeno medio-alto. Servono grande attenzione al prodotto, originalità e mezzi di marketing che possano promuovere la nostra immagine anche all’estero». Grevi cita internet, la partecipazione a fiere di settore ed esposizioni a Milano, Parigi, New York e in altre città.
La concorrenza dei Paesi emergenti si fa sentire. «In particolare soffriamo quella della Cina, da cui arrivano cappelli di buona qualità a prezzi molto bassi. Non possiamo competere sul costo, né sulla quantità. Dobbiamo puntare su un made in Italy che non sia tale solo perché fatto nel nostro Paese. Dobbiamo fare qualcosa che sappiamo fare solo noi». Vale a dire? «Abbiamo un background creativo di forme, disegni, colori che loro non hanno. I nostri archivi ci fanno partire avvantaggiati. Essendo aziende piccole è difficile che possiamo permetterci grandi stilisti, ma abbiamo piccoli segreti che custodiamo gelosamente, e che rendono i nostri copricapo diversi da quelli cinesi».
L’obiettivo del consorzio, spiega Grevi, è far sì che il mondo torni a considerare “il cappello di Firenze” come sinonimo della miglior qualità. Nel frattempo, le previsioni per i prossimi mesi non sono esaltanti. «Non ci sono segnali molto positivi. Gli unici buoni vengono dai nuovi mercati, come Cina, Corea e Russia. Dal resto del mondo, e in particolare da Europa e Italia, ci aspettiamo una diminuzione del lavoro. Ma siccome sono un ottimista cronico, secondo me da settembre si riprende a pedalare». Sulla strada delle trecciaiole di oltre due secoli fa.