“E al centro dell’universo siede Azathoth: dio cieco e idiota…
amorfa escrescenza d’abissale confusione che bestemmia e gorgoglia
stordito da un incessante suono di flauti”.
C’è questo aggettivo che, per suono, significato e sinestesia mi ha sempre fatto rimbombare il cervello, portandomi a usarlo nelle situazioni più disparate, spesso a sproposito: ctonio. Che dimora nel mondo sotterraneo. Poi, certo, provate voi a pronunciarlo durante un aperitivo primaverile, con il sole ancora alto in cielo e un leggero gazebo di edere intrecciate che mitiga graziosamente i rinvigorenti raggi del sole che carezzano le guance vostre e delle vostre innamorate. Comunque. Ogni volta che penso a questa parola, l’associazione di idee mi porta a Lovecraft, passando ovviamente per Cthulhu che, insieme al Necronomicon, è l’invenzione più famosa – e spesso più sputtanata – del campione di Providence e dell’ancora più sputtanato “Universo lovecraftiano”.
L’Universo lovecraftiano è un buttasù di mostri, miti, profondità abissali, alieni, mesmerismo, cupezza, terribili divinità che ci dominano senza che noi ne sappiamo nulla, nomi evocativi come Azathoth o Miskatonic — giuro che se qualcuno è talmente pazzo da chiamare così la sua palestra, mi iscrivo per i prossimi dieci anni — e tutto il resto del cucuzzaro. Lovecraft è riuscito davvero a crearsi un’aura attorno a sé, è riuscito a scatenare nelle teste di chiunque l’abbia letto una cascata di associazioni mentali che portano tutte allo stesso aggettivo. Alla stessa paura del profondo, dell’ignoto, con il dittongo “ct” che sembra il fiato che ti rimane in gola quando stai per soffocare. Il balbettamento di chi si trova davanti l’orrore e non vorrebbe semplicemente chiudere gli occhi. Vorrebbe non averli mai avuti.
Ctonio.
E non c’è un cazzo da ridere.
Poi però, un bel giorno, preso dai tuoi cupi pensieri di apocalisse, scopri che due geni spagnoli si sono inventati un fumetto dal titolo Il giovane Lovecraft, scopri che questo fumetto è composto da strisce di lunghezza variabile e, dopo averlo anche solo un po’ sfogliato, ti rendi conto, gorgogliante e stordito da un incessante suono di flauti, che fa ridere. Non è che ci si può girare troppo intorno. Alla faccia di Cthulhu, di Arkham e del culto di Shub-Niggurath. Ma la cosa che colpisce davvero è che fa ridere senza tradire nulla dell’estetica lovecraftiana. Di più: fa ridere nel solco di Lovecraft.
Partiamo dall’inizio. I nostri miti e le loro iconografie sono sempre fissate al momento di massimo splendore e realizzazione. Borges me lo immagino sempre vecchio e cieco, Poe stempiato e con i baffetti, Del Piero con la lingua fuori e il collo largo come una quercia secolare. Tutti, però, discendono da un’infanzia e un’adolescenza che, problematiche o felici che fossero, hanno determinato profondamente il loro futuro – e la condanna del loro presente infinito.
Metti che il più grande poeta americano si chiami John T. Shitface. Come puoi non pensare alle sue scuole medie, o all’high school, dove, presumibilmente, tutti i suoi compagnucci lo prendevano per il culo a sangue? Come si fa a rimanere cristallizzati nella sua immagine pubblica di bolso cinquantenne con la penna nella mano e una bella rima in punta di labbra? Questo poveretto si chiama Facciadimerda, vogliamo dire qualcosa a riguardo?
Ecco. Un’operazione culturale degna di nota, e purtroppo poco frequentata, è quella di presentarci i nostri miti quando non lo erano ancora e mostrarci, più che dirci, il modo in cui si sono strutturati in quanto tali. Il giovane Lovecraft, di fatto una sitcom su Howie da piccolo, fa esattamente questo e già basterebbe per leggerlo tutto di un fiato. In più, ci sono tantissime altre cose da dire a riguardo.
Anzitutto è un fumetto. Un fumetto che riesce perfettamente a cogliere l’atmosfera lovecraftiana e canalizzarla in tratti, linee e colori.
Nell’intervista impossibile di Andrea Coccia qui su Linkiesta , il buon Howie diceva a proposito: È l’atmosfera, e non l’azione, il più grande obiettivo della letteratura fantastica. E una delle grandezze di questo autore, secondo me, è l’uniformità di vedute e suggestioni che lo circonda. Chiunque l’abbia letto riesce facilmente a ricondurre tutte le sue tematiche a un universo estetico di riferimento, terribilmente coincidente a quello di tutti gli altri. Perché Lovecraft riesce a trasferire la sua atmosfera, a mesmerizzarla. Quando lo leggi, non immagini i cupi terrori di cui trasuda all’interno delle sue pagine. Li immagini attorno a te. Jose Oliver e Bartolo Torres sono riusciti a confermarcelo, e questo è decisamente appagante per il nostro cervello.
E poi, come dicevo prima, ci sono riusciti nonostante il tono delle loro strisce sia quanto di più apparentemente lontano agli orrori di casa Lovecraft. Dico apparentemente perché è chiaro, e qui diventa di fatto palese, la labilissima linea di confine tra orrore e comicità, lo scarto infinitesimale tra la paura dell’occhio di Rammenoth e la sua parodizzazione.
Oppure: c’è un ghoul, un’orrenda creatura che divora i corpi dei morti aggirandosi nei cimiteri. Un’immagine invero terrificante. Tuttavia, se questo ghoul lo chiami Glenn, gli dai le sembianze di un cane/lupo parlante e trasformi in gag i suoi orrori, riesci a fare ridere senza tradire o, non sia mai, mancare di rispetto alla folle solennità del personaggio. La risata non è mai deteriore, ma è piuttosto la conferma dello spessore e della profondità di un’idea o di un’invenzione letteraria. Possiamo ridere solo di ciò che rispettiamo, altrimenti si chiama presa per il culo, e quella è tutta un’altra cosa.
Ma veniamo ai due volumi. Sono della Diàbolo Edizioni, una delle più grandi case editrici di fumetti spagnole, sono feticci curati benissimo, con copertina cartonata e carta di qualità. E, come avrete capito, raccontano l’infanzia del piccolo Howie che vive a Providence con le zie e non ama particolarmente la compagnia degli altri bambini. I personaggi ricorrenti sono Siouxie, una ragazzina taaanto affezionata a Howie, il ghoul mangiacadaveri Glenn, il numero uno di tutti i tempi Rammenoth – una vecchia mummia che presta occhi (l’Occhio di Rammenoth) e mani (la Mano di Rammenoth) a chi ne ha bisogno, da evocare con un semplice rito magico. Poi ci sono le grandi riscritture dei classici sullo stile Lovecraft, con Chtuhlu che trucida Jim Hawkins e tutti i pirati dell’Isola del tesoro e pure una sequenza davvero geniale con Poe, Rimbaud e Baudelaire che vivono nei sotterranei di un cimitero, bevono e si drogano continuamente e passano il tempo ascoltando dischi di Liszt sul grammofono, discutendo di poesia, distillando liquori caserecci e sfidandosi in gare di recitazione, illustrate benissimo dal disegnatore in alcune tavole davvero mirabili.
La vita quotidiana di un ragazzino un po’ recluso, con due zie un po’ troppo protettive, tra riti magici, invocazioni di dei oscuri e lontani e la presenza costante, discreta e magnificamente integrata di ciò che rende Lovecraft Lovecraft. Qualunque cosa sia.