Iran e Arabia Saudita si contendono il Medio Oriente

Iran e Arabia Saudita si contendono il Medio Oriente

Si rafforza il nuovo corso dei militari al potere in Egitto, alleati dell’Arabia Saudita, e specularmente aumenta l’influenza dell’Iran sulla galassia sciita, in Libano, in Siria, in Iraq. I primi sei mesi del 2014 hanno visto un’ulteriore evoluzione dello scenario in Medio Oriente, con i due principali competitors regionali (Teheran e Riad) che consolidano il proprio campo senza riuscire a prendere il sopravvento su quello avversario (anche se non sono mancati tentativi di sabotaggio e manovre strategiche per indebolire i punti di appoggio del nemico). Si alza la tensione anche in Israele e Palestina, col rapimento di tre ragazzi israeliani e la ripresa dei raid di Tel Aviv contro esponenti di Hamas.

Il caos mediorientale da Bush a Obama: l’infografica interattiva

LA LIBIA

Il 25 giugno 2014 in Libia si vota per eleggere i 200 membri del Congresso, il Parlamento libico (MAHMUD TURKIA/Getty Images)

Il Paese non ha mai trovato pace dalla caduta di Gheddafi. L’ex premier Zeidan è stato sfiduciato dal Parlamento (secondo lui illegittimamente) ma l’elezione del suo successore, il miliardario filo-islamico Maiteeq, è stata di recente dichiarata invalida dalla Corte costituzionale. In una situazione vicina all’anarchia nell’ovest del Paese si fronteggiano le milizie filo-islamiche di Misurata e quelle filo-occidentali (per semplificare) di Zintan. Nell’est è ancora in corso l’operazione lanciata dall’ex generale Haftar – secondo alcune fonti uomo di riferimento della Cia – contro le brigate islamiche legate ad Al Qaeda nel Maghreb e in particolare contro il gruppo Ansar al Sharia. L’esplicito appoggio a Haftar delle unità di élite dell’esercito, dell’ex premier Zeidan della Corte costituzionale (da poco rientrato) e – pare – di molti Paesi circostanti (dall’Algeria al Chad, dall’Egitto ai Sauditi), oltre che degli Usa, fanno ritenere ad alcuni analisti probabile un prossimo golpe militare che riporti l’ordine nello Stato libico. L’alternativa potrebbe essere addirittura un intervento militare diretto degli Stati circostanti in Libia per stroncare l’attività di numerosi gruppuscoli terroristi ritenuti potenzialmente pericolosi o destabilizzanti.

L’EGITTO

Supporter del Generale al-Sisi al Cairo (Getty Images)

Si è ulteriormente consolidato il dominio dei militari nel Paese con l’elezione alla carica di presidente dell’ex capo delle forze armateAbdul Fattah al Sisilo scorso 8 giugno. Le condanne a morte dei sostenitori dei Fratelli Musulmani – partito che aveva espresso il precedente presidente, poi deposto con un golpe, Mohamed Morsi, e che ora è stato bandito come organizzazione terroristica – sono state numerose. Di recente anche tre giornalisti di al-Jazeera accusati di aver fatto disinformazione a sostegno della Fratellanza sono stati condannati al carcere per 7 e 10 anni. Gli Usa, storico partner economico e militare del Cairo, che lo scorso ottobre avevano congelato aiuti militari per 1,5 miliardi di dollari, hanno a fine giugno sbloccato la prima tranche da oltre 500 milioni. Nel frattempo era stata l’Arabia Saudita – con oltre 4 miliardi di dollari di prestito – a rimpinguare le linee di credito dei militari al potere in Egitto.

LA SIRIA

Attacchi bomba nel distretto di Kallaseh, nella parte nord di Aleppo, nel giugno 2014 (BARAA AL-HALABI/Getty Images)

Si consolida la situazione di vantaggio del regime di Damasco che è riuscito a conquistare la regione di confine con il Libano (il Qalamun e la città – simbolo della insurrezione – di Homs), tagliando le linee di rifornimento dei ribelli e spaccando il fronte di combattimento in due tronconiBuona parte del merito della vittoria va all’Iran che ha mobilitato in sostegno di Assad (rieletto il 3 giugno in elezioni farsa) tanto le proprie truppe d’élite (la Quds Force) quanto i miliziani sciiti dell’Hezbollah libanese. Continuano poi gli scontri interni alla ribellione ma un nuovo accordo tra Al Nusra e Isil potrebbe sanare la ferita all’interno della galassia del fanatismo islamico. Rimangono tuttavia intatte le frizioni con le milizie “laiche” e con i curdi. Gli sforzi della diplomazia per ora sembrano senza esito: sembra mancare una exit strategy diversa dal lasciare che lentamente il regime di Assad logori gli insorti, senza che però possa sconfiggerli del tutto.

IL LIBANO

Un attacco bomba nel quartiere a più alta densità di popolazione sciita di Beirut il 24 giugno 2014 (ANWAR AMRO/Getty Images)

Il Paese è travolto dal caos che regna negli Stati vicini ed è senza presidente dal 25 maggio, giorno in cui è terminato il mandato dell’ex generale Michel Suleiman: le sessioni del parlamento vengono disertate da diversi partiti per impedire il raggiungimento del quorum necessario per indire nuove elezioni. Gli attentati intra-religiosi (sunniti contro sciiti e viceversa) sono all’ordine del giorno, di recente si sono scoperte cellule attive collegate all’Isis nel Paese e la situazione dei profughi siriani si fa sempre più insostenibile.

L’IRAQ

Iracheni cercano rifugio nei campi profughi in Kurdistan dopo che Isis ha preso il controllo della città di Mosul (SPENCER PLATT/Getty Images)

Dopo le elezioni dello scorso 30 aprile l’Iraq non ha ancora raggiunto un accordo per il governo (il presidente uscente Al Maliki, ed esponente del partito sciita di maggioranza relativa, non ha trovato una quadra con le altre forze politiche e rifiuta per ora la formazione di un governo di unità nazionale, chiesto anche dagli Usa) ma soprattutto è stato sprofondato nel caos dall’avanzata dei guerriglieri dell’Isis (Stati islamico della Siria e dell’iraq) che, dopo una serie di vittorie militari in piccoli centri, hanno fatto il salto di qualità conquistando e per ora mantenendo la città di Mosul, seconda nel Paese per abitanti. Qui hanno razziato le ingenti risorse economiche e militari presenti e hanno cominciato l’avanzata verso sud, verso Baghdad. Al nord non riescono a sfondare per la resistenza opposta dalle truppe curde, militarmente ben addestrate e in grado di tenere testa all’Isis. In compenso nella provincia a maggioranza sunnita di Anbar – grazie anche al sodalizio con realtà non legate al fanatismo islamico ma al vecchio regime baathista di Saddam, e accomunati dall’insofferenza verso lo sciita Maliki – oramai hanno il controllo dell’intero campo o quasi. Sono padroni di alcuni valichi strategici sul confine siriano e anche il confine con la Giordania, abbandonato dalle truppe regolari irachene e su cui Amman sta ora schierando il proprio esercito per evitare sconfinamenti, rischia di cadere in mano loro.

Nel medio periodo è improbabile che l’Isis riesca a ottenere il suo scopo, la creazione di un califfato islamico. Il fronte che gli si oppone è vasto, eterogeneo e meglio armato (dall’Iran agli Usa, dai curdi alla Turchia – anche se di recente pare abbia trovato un accordo con i qaedisti di Al Nusra). L’Iraq sta precipitando verso una guerra civile caratterizzata dallo scontro tra sette religiose: su impulso di Maliki gli sciiti, in particolare le milizie fedeli al mullah estremista Muqtada al Sadr, sono già in armi e si preparano allo scontro militare con l’Isis e i suoi fiancheggiatori.

IRAN

Una protesta per chiedere più diritti alle donne a Teheran (HASSAN AMMAR/Getty Images)

Come già in Siria anche in Iraq si allunga l’ombra lunga dell’Iran, che invia aiuti economici e militari, truppe d’assalto e istruttori per aiutare i propri alleati dell’asse sciita. Con Baghdad (relativamente) amica di Teheran, per la prima volta c’è una continuità territoriale degli Stati a guida sciita dai deserti orientali della Repubblica Islamica iraniana fino alla sponda mediterranea del Libano (considerando che Hezbollah ha il controllo totale di uno spicchio di territorio libanese). La situazione rimane comunque molto fluida e lo scontro per l’egemonia regionale con l’Arabia Saudita prosegue in tutti gli scenari caldi del Medio Oriente. La trattativa – formalmente sul nucleare ma in realtà sull’equilibrio geopolitico dell’intera area – con gli Stati Uniti ancora a maggio sembrava essere entrata in fase di stallo, dopo un avvio promettente. Gli incontri di giugno fissati tra il 5+1 (il Consiglio di sicurezza Onu più la Germania) e l’Iran a Ginevra non pare che possano approdare a risultati concreti. La necessità di trovare un’intesa per arginare il caos in Iraq potrebbe portare Washington e Teheran a riaprire il dialogo sulle altre questioni: il ruolo strategico dell’Iran nell’area, in primis, e il dossier nucleare.

L’ARABIA SAUDITA

Il ministro degli Esteri saudita Abdulaziz bin Abdullah arriva al 13° meeting del Gulf Cooperation Council il 2 giugno 2014 (FAYEZ NURELDIN/Getty Images)

Anche il campo saudita, specularmente a quello dell’Iran, si è consolidato nell’ultimo periodo. Soprattutto grazie alla svolta pro-militari e anti-Fratellanza musulmana – che contende ai wahabiti di Riad la leadership religiosa sugli arabi – che stanno intraprendendo i grandi Stati del Nord Africa (Egitto e potenzialmente Libia). Avendo una maggiore tranquillità sul fianco ovest, i sauditi possono concentrarsi maggiormente sul fronte orientale, dove in Siria e in Iraq soprattutto è violento lo scontro. Ma al di là della consueta attività di finanziamento, oltre che degli Stati alleati come l’Egitto, anche dei gruppi armati jihadisti e talvolta qaedisti, ai Sauditi preme in particolar modo evitare un accordo tra Stati Uniti e Iran (funzionale per Washington alla progressiva riduzione della propria presenza nell’area). Per scongiurare l’eventualità di un disimpegno Usa – alleato fondamentale per Riad e storicamente ostile a Teheran –  operano tanto i servizi di intelligence quanto la lobby petrolifera del Paese.

ISRAELE E LA PALESTINA

Proteste per chiedere il rilascio di tre ragazzi rapiti in Israele il 12 giugno 2014 (DON EMMERT/Getty Images)

Dopo un lungo periodo in cui la questione israelo-palestinese sembrava avere perso rilievo nello scenario mediorientale, di recente la situazione è tornata a surriscaldarsi. Le due fazioni palestinesi, Hamas e Fatah, hanno creato un governo di unità nazionale in vista delle elezioni dell’anno venturo. Probabilmente ha favorito l’accordo la relativa assenza di attori esterni attualmente impegnati in altri scenari – come i Sauditi, Hezbollah, l’Iran, la Siria – che soffiassero sul fuoco delle reciproche diffidenze e divisioni. Israele prosegue nell’edificazione di colonie nei territori occupati – suscitando per questo le critiche dell’alleato americano – ma più che questo a far alzare la temperatura sono stati due recenti episodi: il primo è il rapimento di tre giovani studenti israeliani, pare ad opera di Hamas. Il governo israeliano guidato da Netanyahu ha lanciato un’operazione su vasta scala contro la dirigenza del partito islamico palestinese e non è ancora chiaro quali saranno le conseguenze. Il secondo è l’uccisione di un 15enne israeliano con un colpo di mortaio sulle alture del Golan: Israele ha risposto attaccando diverse postazioni militari siriane, ritenendo responsabile Damasco per l’attacco. Al di là delle dichiarazioni ufficiali, è improbabile che Assad voglia aprire un fronte anche con Israele, ma le possibili ripercussioni degli ultimi eventi sono ancora da verificare.

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