Rubrica Scienza&SaluteCome reagisce il cervello quando ascoltiamo musica

Come reagisce il cervello quando ascoltiamo musica

«L’uomo che non ha musica dentro di sé e non è commosso
 dall’accordo di dolci suoni, è incline ai tradimenti, 
agli stratagemmi e ai profitti; i moti del suo spirito sono tristi
 come la notte, e i suoi effetti bui come l’Erebo: non fidatevi di un uomo simile» lo scriveva William Shakespeare nel Mercante di Venezia nel 1596 circa. Lo stesso mito di Orfeo ci mostra come la musica, in grado di portarci tra i morti, abbia degli effetti quasi magici. Ma possiamo parlare di musica anche molti anni prima, quando circa 60 mila anni fa, l’uomo costruì i primi strumenti musicali: strumenti a percussione, flauti fabbricati con ossa. «La musica – secondo Jaak Panksepp, neuropsicologo studioso delle emozioni – deriva dalle grida emesse dai primi ominidi quando qualcuno si allontanava dal gruppo».

E ancora: «Nel mondo animale le grida servono a conservare il contatto tra madre e figlio e all’interno del gruppo sociale» spiega Enrico Granieri, professore ordinario di Neurologia presso l’Università degli Studi di Ferrara. «Proprio da qui arriva il significato biologico delle reazioni del sistema vegetativo suscitate dalla musica: quando il cucciolo sente la voce della madre, i suoi peli si rizzano e lo riscaldano. Si verifica una “sorta di orgasmo delle pelle”, che a livello cerebrale attiva il sistema deputato all’analisi delle emozioni e alle gratificazioni proprio come quando si prova eccitazione sessuale o si assumono droghe. Nessun altro mezzo di comunicazione è in grado di provocare reazioni emotive altrettanto forti».

La musica quindi non è solo un’attività artistica ma anche e soprattutto una forma di comunicazione eccezionale, l’unica in grado di evocare e rinforzare le emozioni. A prescindere dal tipo di musica che si ascolta o si pratica, musica e canto hanno profondi effetti su ciascuno di noi, sono in grado di raggiungere l’ascoltatore ed evocare particolari emozioni, riportare alla mente immagini e ricordi. Possono indurre sentimenti, reazioni del sistema vegetativo, variazioni del ritmo cardiaco e del respiro, ma anche motivazione al movimento. Riduce l’ansia, la depressione, il dolore, rafforza le funzioni sociali, induce modificazioni cerebrali e attiva le aree del sistema dei neuroni specchio. L’ascolto della musica colpisce una serie intricata di sistemi di elaborazione cerebrali, come quelli connessi all’elaborazione sensoriale-motorio, o implicati nella memoria, nelle emozioni o cognizioni mentali o nelle fluttuazioni dell’umore. Per questo la musica viene utilizzata anche come strumento terapeutico, o come stimolo ritmico per il movimento.

Ma capire esattamente come la musica esplichi i suoi “magici” effetti sul cervello, è ancora difficile da definire. Nonostante da tempo ormai gli scienziati stiano provando a decifrare i complessi meccanismi cerebrali che stanno dietro l’attività musicale. E lentamente qualche tassello è stato inserito nel puzzle. Di recente su Nature è stato pubblicato un lavoro che ha preso in esame gli effetti della musica sul cervello di alcuni volontari sani, in seguito all’ascolto di brani musicali selezionati tra musica classica, country, rap, rock, opera cinese, e una canzone preferita per ciascun partecipante allo studio. «Quando le persone ascoltano la musica che gli piace — spiegano gli autori del lavoro — raccontano spesso che questa evochi pensieri e ricordi personali. Capire come questo fenomeno si verifica all’interno del cervello non è però ancora chiaro».

Attraverso una sequenza di immagini ottenute con la risonanza magnetica funzionale , i ricercatori sono riusciti a ricostruire l’attività del cervello dei volontari mentre ascoltavano i diversi tipi di musica. «Con le prime analisi abbiamo cercato di identificare i cambiamenti cerebrali in base al genere di musica. Quindi abbiamo studiato come i circuiti neuronali fossero attivati in seguito all’ascolto di musica preferita (associata al pensiero introspettivo, l’emozione e la memoria), rispetto alla musica non preferita». Quello che è emerso è che, i circuiti cerebrali attivati durante l’ascolto erano gli stessi quando il volontario ascoltava un brano musicale che gli piaceva, indipendentemente dal genere e dalle caratteristiche acustiche. Inoltre i ricercatori hanno visto che l’ascolto di una canzone preferita alterava la connettività tra aree cerebrali uditive e l’ippocampo, responsabile della memoria e del consolidamento delle emozioni. «Un risultato inaspettato — continuano gli autori — dato che le preferenze musicali di ciascun individuo sono eterogenee e individuali e che la musica può variare in complessità acustica e la presenza o assenza di testi. Questi risultati spiegano perché stati emotivi e mentali analoghi possono essere sperimentati da persone che ascoltano musica molto differente, da Beethoven a Eminem».

«È un lavoro ben fatto – spiega a Linkiesta Giuliano Avanzini, professore emerito di neurologia presso la Fondazione IRRCS Istituto Neurologico Carlo Besta — che cerca di indagare quali sono i  meccanismi con cui la musica può agire sul cervello, e il network che viene attivato durante l’ascolto della musica. Il metodo usato è adeguato e consente di vedere la simultanea attivazione delle diverse aree cerebrali coinvolte. Le evidenze (non solo ottenute con la risonanza magnetica ma anche neuropsicologiche), per cui l’ascolto musicale e soprattutto la pratica musicale, possa attivare dei collegamenti nel cervello e migliorare le funzioni cerebrali (come facilitare l’apprendimento della matematica, delle lingue e così via), sono diverse e ormai condivise.

Quello che bisogna prendere con cautela in questo studio sono le implicazioni che se ne vogliono dare. Lo scopo dei ricercatori era capire quali circuiti venissero attivati nel cervello in seguito all’ascolto di musica, distinguendo tra musica che piace, non piace e neutrale, e individuane le differenze. Gli autori sostengono che questa possa essere la base per utilizzare queste informazioni a scopi terapeutici e di riabilitazione. In generale è una considerazione giusta, ma è un punto di partenza. Serviranno altri studi ancora per dimostrare che il network neuronale attivato dall’ascoltare la musica possa essere alla base per esempio di pratiche di riabilitazione».

Già oggi la musica viene usata a scopo riabilitativo, non per ridurre la disabilità specifica, compito della fisioterapia, ma per potenziare le abilità residue della persona, promuovere benessere e salute, migliorare la qualità di vita
e ridurre la percezione di dolore e disabilità. «Alcune pratiche sono basate su modelli empirici – continua Avanzini – ma si dimostrano comunque efficaci, altre hanno delle evidenze scientifiche di base. Per esempio la musica viene usata per i pazienti affetti da morbo di Parkinson, che hanno difficoltà di movimento. Durante l’ascolto musicale queste persone possono sbloccarsi completamente e addirittura mettersi a danzare. Poi finita la musica tornano purtroppo come prima. Chi fa riabilitazione afferma che ripetendo questa pratica gradualmente si ottiene un certo sblocco anche persistente (anche se, trattandosi di una malattia progressiva quello che si guadagna in questo modo poi si perde con il tempo).

La musica viene usata anche per la memoria nelle persone affette da Alzheimer e nei bambini dislessici. In questo caso ascoltare musica aiuta a leggere e scrivere meglio. In Italia c’è uno studio tuttora in corso, che ha già dato dei risultati interessanti: hanno diviso i bambini in tre gruppi, alcuni sono stati seguiti con un programma di educazione musicale, alcuni con un programma di arte visiva e l’ultimo gruppo non è stato seguito. Poi li hanno confrontati, ed è venuto fuori che sia il programma di arti visive che quello musicale portavano dei vantaggi sui bambini dislessici, perché probabilmente il solo fatto di essere impegnati in una attività creativa aiuta il cervello a lavorare meglio. Però hanno trovato che c’era una netta differenza di qualità tra quello che fa la musica e quello che fa la pratica del disegno. L’effetto della musica è molto più forte».

In collaborazione con RBS-Ricerca Biomedica e Salute

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