La missione internazionale in Afghanistan, iniziata nel 2001, sembra non dover finire mai. L’Italia partecipa dal 2003 e dopo undici anni e 53 militari caduti il ritiro totale delle truppe sembra ancora lontano. Mercoledì 1 ottobre il Senato ha approvato il decreto legge sulla proroga delle missioni internazionali, tra cui quella afghana, e ha autorizzato la spesa di 183.635.692 euro destinati alla missione fino al 31 dicembre di quest’anno. Gli stravolgimenti dello scenario internazionale, però, fanno pensare che non saranno gli ultimi soldi spesi per Kabul.
In Iraq il disimpegno delle forze straniere nel 2011 ha lasciato il Paese nel caos. La paura che in Afghanistan possa ripetersi lo stesso scenario e la recente offensiva talebana sta spingendo Obama e gli alleati a una linea più prudente in Afghanistan, e la recente firma del Bsa (Bilateral security agreement) tra gli Usa e il nuovo presidente Ghani lo dimostra. Il precedente presidente Karzai si era sempre rifiutato, per ragioni di politica interna, di siglare il trattato, perché assicura ai soldati americani di venir giudicati dalla legge americana, non da quella di Kabul.
Il nuovo Bsa permetterà a 9.800 soldati americani di rimanere in Afghanistan per altri dieci anni, superando il 2014, il termine originario della missione Isaf (International security assistance force). Gli Usa avranno tutte le garanzie legali per rimanere in Afghanistan con missioni prettamente di addestramento e di supporto delle forze di sicurezza afghane. A lato di questo trattato è stato firmato anche un accordo tra i membri della Nato e Kabul, alle stesse condizioni: il Sofa (Status of force agreement).
Soldati italiani in missione di pattugliamento (ARIF KARIMI/AFP/Getty Images)
Ed è qui che l’Italia torna in ballo. Il contingente italiano nella missione Nato ammonta a 1.411 soldati, dislocati principalmente nella base occidentale di Herat. Il rientro definitivo, dopo svariate proroghe, doveva avvenire alla fine di quest’anno. Alla luce dei fatti, sembra improbabile che ciò avvenga. Del resto già lo scorso marzo, intervenuta in audizione davanti alle commissioni Esteri di Camera e Senato, il ministro degli Esteri Federica Mogherini aveva anticipato che il nostro Paese sarebbe stato pronto a mantenere la presenza in Afghanistan, qualora il governo di Kabul ne avesse fatto richiesta.
«Dopo il 2014, la sfida principale sarà determinare il sostegno di Isaf alle Ansf (Afghan National Security Forces, ndr) per il post 2014, sotto il profilo sia operativo sia finanziario» si legge nel dossier del servizio studi di palazzo Madama. Nicola Latorre, presidente della commissione Difesa del Senato, è chiaro sul punto: «Si è confermato l’impegno italiano in tutte le missioni internazionali – racconta – Ovviamente adesso, insieme ai nostri alleati e con la Nato, dovremo valutare quale impegno si renda necessario per supportare il lavoro di formazione delle forze di sicurezza afghane, e quindi in questo senso vedremo quali saranno i compiti che aspetteranno all’Italia e come noi continueremo a essere presenti in Afghanistan. Non più per ragioni militari ma per ragioni di vero e proprio supporto più che di addestramento».
Quanti uomini verranno impiegati in questa nuova missione, tuttavia, non è ancora chiaro. La Bbc e il Wall Street Journal parlano di 3 mila uomini provenienti da diverse nazioni, guidate da Germania, Turchia e Italia, ma non precisa i numeri per i singoli Paesi.
Continua Latorre: «Di questo se ne era già iniziato a discutere con il governo Letta, ma quelle che erano soltanto ipotesi ora si concretizzeranno. Io sono convinto che noi come comunità internazionale non possiamo abbandonare l’Afghanistan. I termini di questa funzione, la quantità delle forze impegnate sono ancora materia da discutere, ma in linea di massima io penso che questo sia un ruolo al quale la comunità internazionale non può sottrarsi, visto anche il precedente dell’Iraq. L’Italia è un grande paese e un grande paese deve assumersi le sue responsabilità. I termini dell’assunzione di questa responsabilità si concorderanno con i nostri alleati». Non tutti, però, sono convinti che l’Italia stia facendo le scelte giuste in materia di politica estera. Tra questi, il deputato di Sel Giulio Marcon, che parlando a nome del suo partito sostiene che la missione afghana sia stato un errore fin dall’inizio. A sentire il parlamentare è necessario ribaltare completamente il punto di vista sulla politica da tenere a Kabul. «Noi abbiamo sempre pensato che si tratta di una decisione sbagliata, la missione in Afghanistan non è una missione di pace ma una missione di guerra. Le nostre forze sono impegnate in una missione di occupazione militare del territorio, e quindi pensiamo che le truppe italiane dovrebbero essere ritirate. Era necessario intervento di altro tipo, non sotto la guida della Nato, ma sotto il controllo dell’Onu. Avremmo costruito un contesto con le forze sul campo di confronto e di dialogo, l’intervento della Nato è stato invece di impostazione diversa, militare in senso stretto. Se pensiamo a tutti i soldi spesi per far rimanere le truppe in questi anni, forse investirli per attivare il processo democratico e la ricostruzione economica del Paese, avrebbe portato risultati diversi. La soluzione in Afghanistan non è una soluzione militare, ma una soluzione politica. Dobbiamo costruire le condizioni perché sia possibile la soluzione politica. Non si può pensare di farlo con le armi».
Si può discutere all’infinito sulle scelte, giuste o sbagliate, fatte in passato. Ma, se guardiamo al presente e alla soluzione migliore in questo momento, è difficile pensare che un Afghanistan lasciato senza la protezione della coalizione internazionale possa cavarsela da solo. Le forze di sicurezza afghane non sono ancora pronte a tenere in sicurezza il Paese da sole. Secondo il Generale Mauro Del Vecchio, ex senatore democrat e comandante della coalizione Isaf nel 2005-2006, «indubbiamente il progresso di crescita delle forze di sicurezza afghane non si è ancora concluso. È chiaro che la presenza di addestratori sarà fondamentale per il futuro del paese. Ci sono degli assetti particolarmente importanti che l’Italia ha proprio nel settore dell’addestramento e della formazione. Non ci sono paragoni tra i nostri carabinieri e i loro omologhi nella coalizione. Certamente la quota di partecipazione, piuttosto contenuta, sarà definita tenendo conto delle capacità e delle possibilità che le singole nazioni hanno nell’offrire un aiuto. È interesse della comunità internazionale creare delle condizioni perché il lavoro fatto finora non venga vanificato».
Tuttavia, c’è chi come Andrea Carati, ricercatore in Relazioni Internazionali dell’Università degli Studi di Milano, che aveva già espresso a suo tempo la sua opinione a Linkiesta, non è convinto che il solo addestramento basterà: «Sul futuro sono pessimista. I programmi di addestramento delle forze di sicurezza afghane saranno fatti in buona fede e con impegno sincero da parte delle truppe internazionali, ma saranno del tutto insufficienti in termini numerici, e temo anche in termini di finanziamenti. Le forze afghane costano molto e la comunità internazionale ridurrà progressivamente anche l’aiuto economico. Più in generale, hanno dei problemi che vanno dalle divisioni etniche interne ai deficit di stanziamenti. Non avranno tutti gli asset militari che gli hanno dato le truppe internazionali finora, in particolare l’aeronautica, che è stata fondamentale nella causa contro i talebani in questi anni».
E non è l’unico a pensarla in questo modo.
In questi giorni sono soprattutto le potenze regionali a spingere per una prolungata permanenza degli Usa. L’offensiva talebana nell’ultima settimana si è inasprita. I miliziani hanno ucciso almeno cento civili nella provincia orientale di Ghazni e l’1 ottobre un attentato kamikaze a Kabul ha provocato sette morti e sei feriti. I talebani stanno alzando la testa in vista del disimpegno della coalizione internazionale, e i vicini dell’Afghanistan sono preoccupati. Come riferisce Foreign Policy del 30 settembre: «Importanti cariche afghane e pakistane, e il primo ministro indiano Narendra Modi, stanno spingendo l’amministrazione Obama a riconsiderare il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan, segnalando il caos e la violenza in Iraq e avvertendo che l’Afghanistan potrebbe subire lo stesso destino se tutti gli americani andranno a casa entro il 2016, come programmato. (…)
Rimanere fermi sul programma delineato da Obama, spianerebbe la strada ai talebani nel conquistare vaste porzioni di Afghanistan, proprio come lo Stato Islamico ha fatto in Iraq. (…)
La campagna di lobby afghana e pakistana riflette le crescenti preoccupazioni in tutta l’Asia del Sud circa la situazione di debole sicurezza dell’Afghanistan, che è peggiorata tra le rinnovate offensive talebane. Centinaia di soldati e poliziotti afghani sono stati uccisi quest’anno, con altri migliaia ferirti, da quando militanti ben equipaggiati sono tornati in quelle aree una volta controllate dalla coalizione Nato guidata dagli Usa. (…)
«Abbiamo chiesto all’America, a proposito del disimpegno, di non ripetere l’errore che ha commesso in Iraq» ha affermato Modi al Council on Foreign Relations di lunedì «perché sapete cos’è successo lì dopo il ritiro delle truppe. Il disimpegno dall’Afghanistan deve essere molto graduale, solo in questo modo possiamo impedire ai talebani di rialzare la testa».