La campagna militare israeliana nella striscia di Gaza è finita il 26 agosto, dopo 50 giorni di scontri. I bombardamenti israeliani e le truppe terrestri hanno causato 2.131 vittime tra i palestinesi (1,473 civili, 279 miliziani, 379 non identificati, dati Onu) nella lingua di terra affacciata sul Mediterraneo. Da parte israeliana sono morti 66 soldati e sei civili. Il cessate il fuoco è stato firmato al Cairo con la mediazione dell’Egitto, e nella stessa capitale si è tenuta domenica 12 ottobre una conferenza internazionale per raccogliere fondi da usare per la ricostruzione nella Striscia.
Nel corso dei 50 giorni di bombardamenti, si stima che circa 18 mila case siano state distrutte, e le autorità palestinesi avevano chiesto 4 miliardi di dollari per ricostruire Gaza. Stati Uniti, Unione Europea e Paesi arabi si sono riuniti presentando le proposte di finanziamento. Israele è rimasto fuori su richiesta dell’Egitto, per non compromettere l’esito del vertice. Sono stati promessi in tutto più di 5,4 miliardi di dollari, di cui circa la metà andranno nella ricostruzione vera e propria e il resto in aiuti umanitari e finanziari. Nonostante si parli di una raccolta fondi destinata a ragioni benefiche, il quadro finale riflette in un certo senso anche le diverse politiche dei Paesi coinvolti e alcune tendenze in corso in Medio Oriente.
Ecco le somme promesse da alcune delle nazioni partecipanti, confrontate con quelle spese per la ricostruzione dopo la guerra del 2008-09.
Dal grafico emergono alcune differenze interessanti rispetto al 2009, che rispecchiano in parte l’evolversi degli interessi nella regione delle singole nazioni. In questi cinque anni molte cose sono cambiate in Medio Oriente, a cominciare dalle cosiddette “primavere arabe”, e le priorità degli attori regionali sono mutate. Se la somma finale è rimasta più o meno la stessa (4 miliardi e mezzo nel 2009 contro i 5 abbondanti del 2014), sono cambiate notevolmente le fonti del finanziamento.
Il dato più significativo è quello del Qatar. Dalla piccola penisola sul Golfo Persico è stato garantito un miliardo di dollari di aiuti. Nel 2009 Doha aveva dato due milioni di dollari scarsi. Cos’è cambiato da allora? Il Qatar, a partire dal 2011, ha puntato tutto sull’islam politico impersonato dai Fratelli Musulmani, finanziandolo in tutti gli scenari più caldi: dall’Egitto di Mohammed Morsi alla Siria delle brigate in lotta con Bashar Assad. Spesso con conseguenze drammatiche, come vediamo in questi giorni in Siria e in Libia. Tra i vari beneficiari di quest’azione politica c’è anche Hamas, l’organizzazione palestinese — nata come braccio armato dei Fratelli Musulmani — che controlla e governa de facto la striscia di Gaza.
Nonostante i fondi stanziati non vadano direttamente a quella che Stati Uniti, Unione Europea e Israele considerano un’organizzazione terroristica, è probabile che Doha punti su un beneficio indiretto per Hamas. Dato il suo controllo sul territorio, è irrealistico pensare che questa non riesca a impossessarsi di parte dei finanziamenti stranieri, di cui in questo momento ha un grosso bisogno. Sicuramente l’ingente somma promessa dimostra la volontà qatariota di avere un peso maggiore sulla partita palestinese, in particolare su Al-Fatah, il partito di maggioranza della Palestina guidato da Abu Mazen.
Stesso discorso potrebbe valere per la Turchia, che ha offerto 200 milioni di dollari contro i 63 del 2009. Come il Qatar, il presidente turco Recep Erdogan si è schierato con i Fratelli Musulmani, e più in generale a sostegno dell’islamizzazione politica del mondo arabo, in un tentativo di aumentare la propria influenza sulla regione. È lecito immaginare che anche su questo fronte Ankara stia cercando di incrementare il suo soft power.
Se da una parte abbiamo Qatar e Turchia, dall’altra ci sono l’Arabia Saudita e i suoi alleati. Riyad ha voltato le spalle ai Fratelli Musulmani e ad Hamas in seguito alle primavere arabe, finanziando copiosamente il generale Abd al-Fattah al Sisi dopo la sua ascesa al potere a danno di Morsi. Nel suo costante tentativo di mantenere lo statu quo e temendo una diffusione dell’islam politico, l’Arabia Saudita ha dichiarato illegale i Fratelli Musulmani nel marzo 2014. Hamas e la sua lotta contro Israele ne hanno risentito, lasciando l’organizzazione paramilitare in un isolamento senza precedenti. Nel 2009 era stata Riyad, non Doha, a dare un miliardo di dollari per la ricostruzione di Gaza. Oggi non ci sono ancora numeri esatti sugli aiuti sauditi per la Striscia. L’ultimo dato disponibile risale a metà settembre, quando i sauditi avevano offerto 500 milioni di dollari di aiuti. Sarebbe comunque la metà di quanto versato nel 2009. Il Kuwait, stretto alleato di Riyad, ha più che dimezzato i suoi stanziamenti, passando da 543 milioni a 200.
Anche sul fronte occidentale ci sono delle differenze. Mentre l’Europa è rimasta in linea con le cifre del 2009, gli Stati Uniti sono scesi da 900 milioni a 212. Non bisogna trarre conclusioni affrettate su questo dato: se è vero che in generale la strategia dell’amministrazione Obama è stata quella di un progressivo disimpegno dal Medio Oriente, sarebbe tuttavia superficiale leggere questa consistente riduzione come un abbandono americano della Palestina. La conferenza per la ricostruzione è stata voluta proprio dagli Usa, attraverso il segretario di Stato John Kerry. L’intento americano è quello di lasciare sempre di più che siano i Paesi mediorientali a occuparsi del Medio Oriente, e vista la somma finale, possiamo dire che la riduzione americana è stata più che compensata da altri finanziamenti. Questa politica sembra l’unica strada percorribile perché le potenze regionali riprendano a confrontarsi e ad arrivare a soluzioni da sole, senza la mediazione di attori esterni. Stiamo parlando di un percorso complesso che non si sta sviluppando a costo zero e che costerà ancora, ma è fondamentale che avvenga.