Il primo gennaio sono scaduti i diritti d’autore di Antoine de Saint-Exupéry — quindi, tra gli altri, anche quelli del Piccolo Principe — e alcune case editrici italiane stanno pacatamente cavalcando la cosa. Mondadori ci ha fatto il Meridiano, poi, a ruota, con nuove traduzioni, arrivano Feltrinelli, Newton Compton, Giunti, Fanucci, Garzanti e Sellerio. Insomma: tutto il cucuzzaro. Il motivo è facilmente intuibile: il Piccolo Principe rappresenta le Vigorsol dell’editoria, la guida tv della brossura, la ricarica da 10 euro della Wind del paperback. Acquisto d’impulso se ce n’è uno, almeno dieci copie del libriccino sono sempre strategicamente piazzate vicino alle casse e costano, guarda caso, esattamente come il resto che vi danno del libro che avete appena pagato, visto che, probabilmente, i prezzi di tutti gli altri volumi della libreria sono calcolati sulla base di questo rapporto.
Il Piccolo Principe sembra piacere a tutti. Io lo odio. Ma il mio problema non risiede tanto nel contenuto del libro che è, comunque, una favoletta molto pretenziosa e poco efficace su una volpe un po’ dubbia, un ragazzino mezzo rincoglionito e immagini e valori talora banali, talaltra censurabili, tipo la storia che se vuoi un amico devi addomesticarlo o questo dualismo tra piccoli e grandi con i grandi che sembrano dei minorati. Il paragone con Alice nel paese delle meraviglie è talmente imbarazzante da far impallidire anche quella furbina della volpe che addirittura chiede di essere addomesticata (che cosa c’è sotto?).
Comunque, il punto non è questo. Il Piccolo Principe è un libro modesto e tant’è, ce ne sono di molto peggio. Il problema sono gli effetti delPiccolo Principe sulla gente. Ma andiamo per gradi. Il Piccolo Principe fa parte di una trimurti che comprende anche Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach e Siddharta di Herman Hesse (e che peccato, se si pensa a quel suo capolavoro Il giuoco delle perle di vetro). A volte, per quelli di letture molto vaste, si aggiunge anche L’Alchimista di Coelho, come bonus track. Sono tre (quattro) libri misteriosamente interrelati da una bava invisibile di sedicente (e sedicenne) mediocrità e di fumo negli occhi; se ci pensate, chi ne ha letto uno, quasi sicuramente ha letto anche gli altri e, nella maggior parte dei casi, tutti e tre costituiscono il podio completo dei gusti di tanti lettori. E quindi anche il loro benchmark rispetto ad altri libri che potrebbero leggere.
Qui ci sono degli esempi trovati in giro (uno, due, tre, quattro, cinque e sei). Potrei andare avanti all’infinito, ma avete capito l’antifona.
Questa dinamica apre a una considerazione molto interessante: se la letteratura è fatta dai lettori e non dagli scrittori, se la letteratura rappresenta l’insieme dei discorsi che i lettori fanno attorno ai libri e, dunque, è una costruzione fatta a partire dall’utilizzatore finale che prende il libro, lo legge, lo mastica, lo rielabora e lo restituisce alla collettività, allora, a qualche livello, il Piccolo Principe, il Gabbiano e Siddharta sono complementari di un’estetica comune, legata a un certo tipo di letteratura sempreverde che tocca alcune corde molto precise e che, anche per questo, è amata da alcuni e odiata da altri, senza mezze misure. Un po’ come le Superga. E un po’ come quando si scopre che due civiltà lontanissime tra loro hanno inventato la stessa cosa, nello stesso momento, senza esserne consapevoli: Herman Hesse, Antoine de Saint-Exupéry e Richard Bach non avevano probabilmente idea del fatto che i loro tre libri più rappresentativi sarebbero diventati un’unica categoria, una monade di lettura. E forse gli sarebbe anche pigliato male, non so.
Questo dice molto su come funziona la letteratura e sul potere dei lettori contro quello, supposto, degli autori e dei libri stessi. Ed è una bella cosa. La cosa meno bella sono gli effetti del Piccolo Principe e degli altri due (più Coelho) sulla gente. Perché il Piccolo Principe è un prepotente, e perpetua solo se stesso e i suoi due amici, cannibalizzando tutto il resto e rincoglionendo i lettori, spesso fin da piccoli. La banalità dei suoi insegnamenti ma, soprattutto, la banalità del modo in cui li mette in discorso, rispetto per esempio ad Alice o agli Sporcelli di Roald Dahl, salta agli occhi anche solo facendosi un giro su Wikiquote. Per carità, ci sono scritte delle cose giuste, alcuni valori sono condivisibili, ma in letteratura ci sono esempi di grande qualità che dicono le stesse cose, ma molto meglio. Questo mi sta sul cazzo del Piccolo Principe: annulla la sua concorrenza.
I libri dovrebbero essere dei ponti verso altri libri e altre letture, in un rizoma in cui ogni punto è collegato a tutti gli altri, prevedendo e incoraggiando percorsi inediti di lettura. Il Piccolo Principe, invece, è una frana che blocca la strada e obbliga il turista della lettura a fermarsi e a valutare la situazione. E, come nella più classica sindrome di Stoccolma, dopo un po’ il lettore si innamora dei massi che gli sbarrano la strada e inizia a parlare come la tipa di Jack Frusciante è uscito dal gruppo.
Il Piccolo Principe è come la volpe al suo interno, solo al contrario: ti addomestica. Dice: addomesticare significa creare dei legami, “se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.” Mi vengono i brividi. Ecco, il Piccolo Principe è un libro che suggerisce un rapporto di questo tipo: sarò per te l’unico libro al mondo. Non ti serve cercare altro, hai già me. Questo è l’effetto che fa sulla gente, ed è sbagliato.
Ma chi siamo noi per criticare una scelta di lettura? L’importante è leggere, no? Più o meno. Io penso che sia nostro diritto e dovere dire questo: ti piace il Piccolo Principe? Non c’è nessun problema, leggilo e rileggilo tutte le volte che vuoi e regalalo a tutte le tue fidanzatine minorenni. Però non fermarti lì, esplora tutte le altre strade, non accontentarti del percorso prestabilito che parte da un bambino con evidenti daddy issues e arriva a un gabbiano parlante la cui metafora continua a sfuggirmi. Fa sì che il Piccolo Principe sia la tua Lonely Planet, non lo stradario dell’ACI del 1982 con le cartine vecchie e le mulattiere al posto delle superstrade.
La popolarità, meritata o meno, di questo libro deve essere un accesso alla lettura, non uno sbarramento. E Antoine de Saint-Exupéry, che era un aviatore e i percorsi li guardava dall’alto, avrebbe sicuramente voluto così. O anche no, ma chi se ne frega.