TaccolaAbravanel: con la meritocrazia l’Italia si può cambiare

Abravanel: con la meritocrazia l’Italia si può cambiare

«Due aziende partecipano a una gara per Expo. Una perde, magari quella con ingegneri giovani e di talento. L’altra vince, magari quella che ha offerto un posto di lavoro al figlio di un altro». Non prende alla larga le vicende di attualità Roger Abravanel, l’ex dirigente di McKinsey che ha importato in Italia il termine “meritocrazia”, con un libro omonimo uscito nel 2008. Dall’#LKopentalk nella redazione de Linkiesta esce un ritratto amaro sui limiti del sistema italiano, incapace di valorizzare il merito sia nel settore pubblico sia in quello privato, dalla scuola alla giustizia fino ai cda di aziende in cui anche manager che ottengono successi vengono defenestrati se sgraditi al titolare. Un quadro fosco in cui però non è venuta meno la volontà di dare battaglia, perché «questo Paese noi possiamo metterlo a posto». A partire dalla selezione dei migliori e dal superamento delle raccomandazioni, che rimangono la via di accesso ai lavori di gran lunga più utilizzata in Italia. Un tasto su cui ha insistito Renzo Noceti, partner di Key2People, società italiana di head hunting, l’altro protagonista dell’incontro nella redazione de Linkiesta

Le origini della mancanza del merito

«Due aziende partecipano a una gara per Expo. Una perde, l’altra vince, magari quella che ha offerto un posto di lavoro al figlio di un altro»

Meritocrazia vuol dire «un sistema sociale in cui i migliori salgono – ha esordito Abravanel -. Questo non vuol dire che il resto della popolazione viene messo da parte, perché i migliori creano opportunità per tutti». Questo concetto non è scontato, né accettato comunemente. Non è un caso che quando il termine fu coniato, negli anni Cinquanta, dal laburista inglese Micheal Young, aveva un significato negativo. Eppure, se man mano la connotazione ha cambiato verso, dopo il cambiamento culturale imposto al mondo occidentale dai governi liberali di Margareth Thatcher e Ronald Reagan, è perché, il mondo è cambiato. «Questo concetto è nato nel secolo scorso perché nel Novecento abbiamo avuto un picco del Pil dell’umanità – spiega l’ex consulente di McKinsey -. C’è stato il grande passaggio dall’economia industriale a quella post-industriale, dove il fattore umano è molto più importante. Il fatto che il termine meritocrazia sia nato in quel periodo testimonia un grandissimo cambiamento dell’economia». 

In questo cambiamento di paradigma a livello globale, l’Italia ha scelto un’altra strada. «Il nostro problema non è macroeconomico, né di livello di debito. È un problema sociale – analizza Abravanel -. Noi siamo un Paese che ha creato un impero romano creato sulla leadership e sul coraggio di persone straordinarie e che nel Rinascimento ha saputo valorizzare i migliori. Noi ora non riusciamo a valorizzare le persone nel pubblico ma soprattutto nel privato».

Abravanel: «Il nostro problema non è macroeconomico, né di livello di debito. È un problema sociale: abbiamo creato l’impero romano e il Rinascimento, na non sappiamo più valorizzare il merito»

Le ragioni di questo distacco, per Renzo Noceti, vanno cercate in tre passaggi storici: «nell’Unità d’Italia», perché l’aver imposto manu militari la relazione di appartenenza con un territorio ha reso estranei gli italiani alla cosa pubblica. «Nel fascismo», perché «ha generato l’aspettativa per cui ce n’è uno che provvede a tutto e gli altri lo guardano. Coloro che gestiscono le nostre aziende si sono formati in contesti educativi fascisti e fanno fatica a emanciparsi». Infine «gli anni di piombo. Non ci rendiamo conto dell’importanza di questa fase. Dopo che erano già arrivati i Beatles, in Italia è avvenuto quello che è avvenuto e nessuno ha potuto mettere in discussione nulla perché tutto è diventato una questione di sangue».

Il risultato, per Noceti è che se il merito è un criterio di selezione, in Italia è una pratica minore. Il metodo che si è imposto è unicamente quello della cooptazione. 

Un problema di regole

Abravanel: «La meritocrazia vuol dire fondamentalmente concorrenza. Da noi non c’è perché lo Stato non fa rispettare la legge. Questo crea un circolo vizioso di evasione e leggi sbagliate»

Se il secondo libro di Roger Abravanel, dopo “Meritocrazia” si chiamava “Regole”, c’era un motivo profondo. «La ragione di fondo è che la meritocrazia vuol dire fondamentalmente concorrenza – ha commentato l’autore -. Non è un diritto acquisito che nasce dalla nascita. E la concorrenza non nasce in Italia perché non c’è rispetto delle regole». Gli esempi si sprecano: dalle gare per lavori pubblici, non ultimi quelli di Expo, Mose e alta velocità ferroviaria, agli abusi edilizi, fino all’Rc auto. «In Italia è l’assicurazione per auto è la più cara del mondo, e a Napoli è quattro volte superiore alla media, perché c’è il record mondiale dei colpi di frusta e una collusione totale con periti, medici, magistrati. I costi delle assicurazioni sono al 90% i sinistri e fanno quindi aumentare le tariffe. Con le tariffe così alte, ci sono tre milioni di persone che non hanno assicurazioni. Per porre rimedio arrivano regole sbagliate della politica. A questo punto l’evasione diventa totale e ci si avvita in un circolo vizioso».

Il tutto, spiega Abravanel, «nasce dal fatto che lo Stato non fa rispettare la legge. Non crea il contesto nel quale nasce quella sana concorrenza che è fondamentale per la meritocrazia. A questo punto le persone non crescono e le nostre imprese sono ferme».

La speranza del cambio generazionale

Noceti: «Non mi aspetto nulla dalla crisi, perché alla povertà ci si abitua. Mi aspetto invece molto dal cambio generazionale, anche al governo»

La crisi economica ha aggiunto alla situazione italiana un elemento di scarsità. Pensare però che questo significhi più competizione e merito sarebbe sbagliato. «La nostra insensibilità alla competizione internazionale e la nostra illusione di vivere in una bolla autartica non è stata scalfita – sottolinea Renzo Noceti -. Non mi aspetto nulla dalla crisi, perché alla povertà ci si abitua. L’opportunità di cambiare si restringe in un lasso di tempo molto stretto, nel momento in cui abbiamo tutti la memoria del ceto medio. Mi aspetto più che dalla crisi qualcosa dal cambio di generazione». In questo senso, per il partner della società di head hunting, «l’attuale premier e il suo governo sono il risultato di una sintesi politica completamente differente rispetto a quella pregressa. Se questo è un segnale, potrebbe indurre qualche elemento interessante nel nostro confronto». Il cambio generazionale è determinante, aggiunge, perché si lega a «un pazzesco cambio di paradigma strutturale. Il digitale cambia le regole del gioco, tra cui quella della gerarchia, che non è più quella del mondo che lo ha preceduto. Mi domando se il “matching”, l’incontro di domanda e offerta sulla Rete, sia imparentato con il merito».

I passi avanti dopo Meritocrazia

I tre passi avanti: il lavoro del magistrato Mario Barbuto, l’Invalsi e l’aumento di donne nei cda delle aziende

La benzina per continuare la battaglia sul merito viene ad Abravanel dalla constatazione che delle quattro proposte lanciate con il libro Meritocrazia, tre sono state raccolte. Il magistrato Mario Barbuto, indicato nel libro come esempio di gestione del personale in un tribunale (di Torino), è stato promosso a capo dell’Organizzazione giudiziaria del ministero della Giustizia. L’Invalsi, strumento di valutazione dei risultati degli studenti, è stato de-commissariato dall’ex ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini sfidando le resistenze sindacali. «Il merito si misura con i voti – argomenta Abravanel – . E in Italia i voti non vogliono dire niente. ci sono settecento 100 e lode alla maturità in Calabria e 26 in Lombardia. La Gelmini decommissariò l’invalsi, con un certo coraggio, e da allora sei milioni di persone hanno fatto test invalsi». L’ulrima proposta è stato l’innalzamento del numero di donne nei cda: dopo il libro e la legge che ne è seguita, «è passato dal 5 al 25% dei posti nei consigli di amministrazione. Questo è opportuno non per una questione di equità, ma perché è stupido togliere metà della popolazione dai cda. Le donne danno un apporto fondamentale alle aziende». 

Siamo incredibilmente indietro su altri fronti, a cominciare dalla scuola. Non a caso la quarta proposta del libro, rendere comparabili i risultati degli alunni delle scuole, è rimasto ancora lettera morta. 

La scuola: l’importanza di valutare i presidi

Abravanel: «C’è una correlazione diretta tra la qualità dei presidi e la qualità della scuola. Ma in Italia i presidi non possono essere valutati»

Il priossimo volume di Abravanel, in uscita ad aprile, si chiamerà “La ricreazione è finita: scegliere la scuola e trovare finito”. Sarà un libro, dice lo studioso, «dedicato ai giovani. Sono molto preoccupato per le nuove generazioni. Il libro dirà che la protezione è l’antitesi dell’impegno. Uno dei 9 comandamenti serà: abbandonare la comfort zone». Cambiare la scuola, secondo Abravanel, è un compito difficilissimo, perché bisogna «cambiare 8mila presidi e affrontare 800mila insegnanti, di cui 300mila saranno bravi. Noi però possiamo metterlo a posto questo Paese». La valutazione dei presidi, fin qui tralasciata da “La buona scuola”, è cruciale, perché «ci sono studi dimostrati che c’è una correlazione diretta tra la qualità dei presidi e la qualità della scuola». Invece, continua, «i presidi non possono essere valutati. Da noi ci sono 82 ispettori, a cui i sindacati hanno cambiato nome in dirigente tecnico. In Italia c’è questa cultura terribile che non permette di cambiare le cose».

Noceti: «Inventiamo corsi di laurea e siamo esentati dallo scrivere “nuoce gravemente alla salute”»

Il punto, continua, è che «qualunque cambiamento tu voglia imporre, hai qualche privilegiato che si oppone. Molti di questi problemi si potrebbero risolvere con facilità e la giustizia è la più facile di tutti: in Italia ci sono 140 tribunali, di cui 26 ottimi, 15 così così e 96 che sono un disastro. Ma basta prendere un signore bravo, mandarlo a Marsala e un uomo solo può fare, come ha fatto, quello che ha realizzato Barbuto a Torino».

Un discorso che appassiona Noceti: «se fossi come Benigni, bacerei Abravanel. Abbiamo scoperto la via del marketing nelle scuole prima di scoprire la regola della trasparenza. Inventiamo corsi di laurea e siamo esentati dallo scrivere “nuoce gravemente alla salute”, che dovrebbe essere scritto a caratteri cubitali come con le sigarette».

Il pubblico non è un monolite

Abravanel: «Renzi non può nominare l’amministratore delegato della Rai. Nella Bbc lo fa una fondazione, dove è rappresentata la società civile»

Nel dibattito sulla meritocrazia, bisogna però evitare di semplificare troppo le cose. Soprattutto se si parla dell’efficienza del pubblico. Intanto, spiega Noceti, «dobbiamo distinguere tra ambiti dell’amministrazione e i grandi soggetti che caratterizzano il Paese». Una scuola o un tribunale non sono aziende come l’Eni o le Poste e non sono neanche la Rai. Anche le competenze richieste ai vertici di questi enti non possono essere confuse. «Quello che conta – spiega – è la possibilità di manovra della figura apicale. Ma è importante evitare la distinzione manichea: non sono convinto che il privato sia il ruolo del merito e il pubblico no». Anche per Abravanel, «il pubblico non è omogeneo» e aziende come la Rai vanno trattate con delicatezza, per il ruolo culturale che rivestono. «Renzi – affonda Abravanel – non può nominare l’amministratore delegato della Rai. Nella Bbc lo fa una fondazione, dove c’è la società civile, che nomina il cda. Ci sono meccanismi di garanzia, che prevedono ad esempio che i mandati dei consiglieri non scadano tutti insieme».

Il mito del privato

Noceti: «Il privato è poco produttivo, perché la competizione all’interno è limitatissima. L’imprenditore al suo interno ha il proprio cerchio magico»

Un errore da evitare è poi quello di rappresentare il mondo privato come idilliaco.  «Fatemi trovare – dice Noceti – dei nomi di campioni nel privato, oltre ai vari Andrea Guerra, Vittorio Colao, Sergio Marchionne, Andrea Greco. Il privato è poco produttivo, perché la competizione all’interno è limitatissima. L’imprenditore al suo interno ha il proprio cerchio magico e non cambia i dirigenti». 

Abravanel rincara la dose: «In Italia i cda sono delle barzellette. Abbiamo una corporate governance indietro di 50 anni. Il consiglio di amministrazione serve come immagine o compliance. In un contesto del genere la rendicontazione è difficile, lo stesso Andrea Guerra è stato licenziato in un’azienda che andava benissimo (Luxottica, ndr). Siamo indietro sulle aziende quotate e peggio sulle non quotate. La rendicontazione nel pubblico, difficile anche all’estero, in Italia è minima». 

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