Brachetti e Ortolani: la magia come messa in scena

Brachetti e Ortolani: la magia come messa in scena

Arturo Brachetti è un artista e un performer rinascimentale: sa fare tutto. Nel suo ultimo spettacolo si cambia d’abito, fa le ombre cinesi, gioca con i laser, disegna sulla sabbia, fa il cabaret e il poeta. È immerso in uno scibile magico/artistico molto ampio e lo percorre in lungo e in largo, con una serietà e una leggerezza che, insieme, si contraddicono e coesistono in un macro concetto molto più profondo e mondano di quello che solitamente si pensa: la magia. Ecco, in questa intervista, alla fine della fiera, parleremo molto di magia, e la magia è una roba potente, anche nel nostro razionalissimo universo narrativo.

La cosa è andata così: Arturo Brachetti è attualmente in tour nei teatri italiani con il suo nuovo spettacolo Brachetti che sorpresa! Io sono andato a vederlo a Milano, al teatro Nazionale, e la prima cosa che salta agli occhi è che questo è uno spettacolo collettivo. Una roba tipo Elio e le storie tese, con il riferimento diretto al frontman nel nome del gruppo ma con altri musicisti dello stesso livello a tenere su la baracca insieme a lui. La seconda cosa che salta agli occhi è che Brachetti, sul palco, è impressionante. Ogni suo aspetto è impressionante, dall’età (57 anni ma se mi dici che ne ha 40 io ci credo senza sussulti) alla velocità del suo trasformismo fino alla volontà, quella sopra tutto, di raccontare storie, mettere in discorso la magia senza parcellizzarla in una semplice sequenza di numeri.

Per fare tutto questo ci vogliono compagni di viaggio all’altezza, e ci siamo, con Luca Bono (giovanissimo mago molto, molto promettente), i comici Luca&Tino e Francesco Scimemi e il ballerino/attore/showman Kevin Michael Moore. Alla consulenza artistica, poi, c’è una persona che gli appassionati di fumetti conoscono molto bene, Leo Ortolani. L’incontro tra Ortolani e Brachetti è inedito e porta a sviluppi molto interessanti. Cominciamo da qui.

Arturo, com’è andata con Leo? Leo, com’è andata con Arturo? Come vi siete incontrati e che cosa avete fatto, esattamente?

AB : Per me Leo Ortolani, come per molti, è un mito. Con Leo ho molte affinità, è uno dei pochi italiani che mi fa ridere, mi trasporta in avventure inaspettate. È un misto tra il culturale, l’umoristico e il surrealistico e di comicità surrealista, in Italia, ce n’è molto poca, non fa parte della nostra cultura. Gli ho fatto la corte per tre/quattro mesi prima di incontrarlo di persona e ho trovato una persona molto simile a me, che crea delle cose folli ma che, nell’intimità, è molto semplice. Abbiamo passato un periodo di creazione e di brainstorming sempre via mail, dove noi gli mandavamo delle suggestioni e lui ci dava il suo punto di vista. Alcune battute le ha scritte lui, ma non è tanto quello, piuttosto ci ha aiutato nella gestione del contesto, abituato con Rat-Man a trovarsi in situazioni spaziotemporali assurde, in mondi in cui il fumetto riflette su se stesso. È stato molto d’aiuto nella costruzione dei personaggi e soprattutto del finale, nella chiusura dell’arco narrativo.

LO : Conoscevo le incredibili performance di Brachetti il trasformista da tanti anni. Sono sempre rimasto sbalordito da quella che è una vera e propria arte. Io sono un appassionato di dietro le quinte e di effetti speciali ma, se riesco a trovare spiegazioni a ogni scena di un disaster-movie, resto letteralmente a bocca aperta per questi cambi di abito, realizzati in frazioni di secondo. Ritrovo il piacere di stupirmi. E insomma, l’estate scorsa Arturo si è messo in contatto con me, attraverso la magia delle email e poi ci siamo incontrati per conoscerci e parlare del suo progetto: modificare i testi di uno spettacolo che era già andato in scena, alla ricerca di qualcosa di più spettacolare. Ci accomuna il forte desiderio di non essere mai banali, in quello che facciamo, e di cercare sempre qualcosa di nuovo, per stupire il nostro pubblico. Cosa che possiamo fare soltanto tenendo continuamente accesa la curiosità.

Stop. Prima di andare avanti bisogna raccontare lo spettacolo. L’idea di base è: Arturo Brachetti ha una valigia piena di costumi, trucchi e attrezzature di scena per fare il proprio spettacolo. Solo che la perde e si ritrova in uno dei non-luoghi per eccellenza, una specie di deposito bagagli di un aeroporto internazionale pieno di altre valigie, bauli e casse provenienti da tutto il mondo. Da qui partono le storie, i numeri e altre figate davvero irraccontabili, come la manipolazione del laser e il video mapping della scenografia.

Comunque, dicevamo. Che cosa ha fatto Leo Ortolani per lo spettacolo di Brachetti?

LO : Il mio compito è stato quello di rimettere mano ai dialoghi e alla storia che sottende ai numeri di magia e di trasformismo. La prima versione di Brachetti che sorpresa! aveva dei problemi abbastanza evidenti, per me che sono sceneggiatore. Occorreva ricreare innanzitutto una situazione di base più solida e coerente con quello che accadeva in scena. Dopo di che, c’era bisogno che la storia crescesse durante lo spettacolo e che i dialoghi fossero divertenti e accompagnassero lo spettatore lungo la storia. Inoltre, andavano valorizzati gli interventi degli altri personaggi che compongono il cast, soprattutto dove erano evidentemente fuori registro. No, non è stato un lavoro facile. Un conto è creare dal nulla una storia, un conto è riparare un racconto che non funziona. Alla fine, ho riscritto Brachetti che sorpresa! tre volte, ma credo che ne sia valsa la pena.

C’è un contrasto apparente, nella realizzazione dello spettacolo, tra la parcellizzazione e la coerenza narrativa: mettere insieme tanti numeri di magia slegati tra loro sotto l’egida di una storia funzionante. Cosa viene prima?

AB : Prima i numeri, ovviamente! Poi la capacità di metterli insieme, con Leo.

LO : Prima la storia, ovviamente! Se la storia non funziona, non ti resta dentro nulla. Se la storia è debole, i numeri non funzionano. Dopo più di 25 anni a creare mondi con le proprie regole, è una cosa che mi viene abbastanza istintiva. Così ero quello “antipatico”, quello che a volte “stroncava” le idee di Arturo perché erano in contrasto con le regole del mondo che stavamo creando. Una volta, al telefono, Arturo mi dice “Ah, già… è vero, tu sei l’avvocato del diavolo!” E io “No, Arturo… io sono il diavolo.”

Nello spettacolo ci sono un sacco di riferimenti pop e culturali. Come li avete scelti? Che cosa vi piace?

LO : Il materiale di partenza era in parte presente, scelto da Arturo e da chi aveva scritto la prima versione. Ne ho aggiunto altro, a rinforzare la storia, materiale anche “umano”, come l’introduzione di una specie di “Virgilio” che accompagnasse Arturo nel suo spettacolo: l’attore e ballerino Kevin Michael Moore, qui vestito come Morfeo di Matrix. Ho comunque cancellato le battute che invecchiavano la storia, perché erano riferite a personaggi di successi mediatici passati (Pippo Baudo, Donatella Rettore…) e ho introdotto battute che avessero riferimenti più attuali o comunque senza età, prediligendo un umorismo surreale (quello preferito da Arturo) e legato alle interazioni tra i personaggi.

AB : Quello che preferisco di più sono i riferimenti surrealisti: la mela, la luna, un maiale che vola. Il surrealismo mi piace molto, anche casa mia a Torino è surrealista, c’è molto Magritte ma anche molte scemenze pop art, tipo rubinetti con acqua luminosa, pareti che si spostano, un telefono volante e altro. Casa mia è una messa in scena continua.

In scena siamo il sogno di quello che potremmo essere. A me piacerebbe essere eternamente giovane, uomo, donna, angelo, diavolo, volare, sparire. Non lo posso fare, ovviamente, quindi ho creato questo grande macchinario per mettere in scena uno spettacolo e viverlo un’ora e mezzo al giorno, e per il resto della giornata faccio finta.

Ecco! Ecco dove volevo arrivare. Gli spettacoli, per Brachetti, sono il suo modo per vivere esattamente quello che si sente essere. Per tutto il resto della giornata si fa finta, non conta, è un’altra roba, molto più noiosa. Se è vero, ed è vero, che si è sé stessi fino in fondo solo quando si fa la cosa che ci piace di più, allora Arturo Brachetti è benedetto e maledetto allo stesso momento, perché sa esattamente cosa fare e sa esattamente che può farlo molto poco. Nel frattempo, si allena.

Come funziona l’apprendimento di una disciplina nuova per te? Come la scegli, come ti alleni, quanto ti alleni?

AB: Decido qualcosa che mi piace, o mi incuriosisce e vado direttamente dai maestri di quella disciplina a chiedere consigli. Poi, visto che dormo molto poco, passo il tempo ad allenarmi continuamente. Ma c’è una cosa che mi chiedo sempre: cosa ci racconto con queste cose qui? La messa in discorso e in scena di questi numeri che imparo non è solo importante, è tutto. Che senso ha piegare una chiave e basta, se non c’è una storia in cui una porta si può aprire solo con un mazzo di chiavi storte? Il grande problema per un illusionista, il suo fallimento, è quando le persone in sala, alla fine, si chiedono solo come abbia fatto a fare questo o quel trucco. Invece è la vita dell’illusionista che deve essere magica.

Se avessi fatto i numeri di trasformazione tutta la vita sarei diventato ancora più bravo in quei dieci minuti di repertorio, ma null’altro. L’illusionista è un attore che interpreta il ruolo del mago, e deve farlo bene.

Infatti c’è questa cosa della valigia che torna sempre, nello spettacolo e anche n ella storia di Silvia Ziche su Topolino. La valigia, metafora della tecnica, delle attrezzature e dei costumi del mago, scompare e, in teoria, dovrebbe essere una tragedia. Poi alla fine si scopre che le cose non stanno proprio così e che se ne può fare anche a meno. Come dire: serve tutto e non serve niente. Si può fare tutto con niente ma si può anche fallire avendo tutto.

AB: Ci sono tanti illusionisti che hanno materiali incredibili ma non diventano famosi perché non hanno nulla da raccontare. Per diventare personaggi interessanti, devi avere un mondo interno da mettere in scena, non si possono solamente fare delle cose. Riuscire a raccontare attraverso la tecnica.

Se la gente non parla del mago ma dei trucchi, lo spettacolo non funziona. Ci vuole cultura, vita, esperienze vissute.

Ecco, parliamo dei tuoi riferimenti culturali.

AB: Cinema moltissimo, serie tv devo starci attento perché sono una droga. Libri ne leggo appena posso, di qualsiasi tipo. Ho anche scritto un libro, la mia autobiografia (Uno, Arturo, Centomila) e ne sto scrivendo un altro che uscirà per Baldini&Castoldi a maggio. Il protagonista si chiamerà Arturo e scoprirà di avere dei veri poteri magici.

Questa cosa della magia, del trucco, che parte ha nella tua vita? Come gestisci il rapporto con il segreto?

Di solito i maghi hanno avuto un’infanzia e un’adolescenza abbastanza difficile, da sfigati e bullizzati. Sono persone che, come me, non erano brave a calcio né particolarmente belli o sicuri di sé, dunque si mettono a fare giochi di prestigio per avere qualcosa più degli altri, per essere interessanti, per vendicarsi socialmente. Per esistere, insomma. E, da qui, parte un rapporto, che dura tutta la vita, con il concetto di segreto.

Me l’ha fatto notare la prima volta uno psicologo. Quando conosci i trucchi di un numero di prestigio, ti senti parte di un servizio segreto all’interno della società, sai qualcosa che gli altri non sanno e, per questo, devi tenerla segreta, per avere un vantaggio. Il segreto è quello che ti dà un potere sugli altri, l’importante è pensare al trucco come se davvero fosse una formula magica, non una tecnica. Ma i trucchi, come dicevamo prima, vanno messi in scena in maniera corretta. Con questa mentalità, dopo un po’ inizi a mettere in scena anche la tua vita – io l’ho sempre fatto. Diventi regista della tua vita e, nel tempo, provi a diventare regista anche della vita degli altri, solo che non è possibile farlo sempre e, per questo, momenti di crisi o di sconforto sono sempre dietro l’angolo.

E il rapporto con il tuo pubblico?

Penso che il mio pubblico non abbia età: va dai bambini, che credono davvero alle magie, c’è un buco generazionale dai 15 ai 20 anni, il periodo in cui l’adolescente rifiuta l’infanzia, poi dai 20 in su, con un ritorno all’infanzia che continua e aumenta per tutta la vita.

C’è una cosa, però, rispetto anche al rapporto col pubblico, che è importante da dire. I trucchi di magia hanno una perversione, una stortura. Perché alcuni possono essere imparati e messi in scena anche in un pomeriggio, dando all’apprendista mago un immediato riscontro positivo che gli fa pensare di essere già un professionista. Ma non funziona così: tra un trucchetto che fa sbalordire i tuoi vicini di pianerottolo a un vero spettacolo c’è un abisso, perché la cosa importante è creare un mondo e poi farci entrare gli spettatori.

Di cose da dire ce ne sarebbero ancora tantissime, ma la lenzuolata finisce qui, ché è già da più di un’ora che chiacchieriamo e c’è il tipo di Radio Italia che sta guardandomi come si guarda un avventore al ristorante che sta finendo il caffè e sta occupando il tuo posto a sedere. Arturo Brachetti e Leo Ortolani sono bravi a sapersi mettere in discorso e a mettere in scena loro stessi attraverso le loro capacità. E la magia come narrazione di un’illusione mi sembra una delle migliori definizioni che abbia mai sentito a riguardo. Per chi volesse vedere con i propri occhi, queste sono le prossime date del tour di Brachetti che sorpresa! Io adesso, vado a fare i giochetti con le carte per sbalordire la vecchietta che abita qui di fronte. Se c’è una perversione nella magia, non me la perdo di certo.

Milano, da martedì 17 a domenica 29 marzo
Barclays Teatro Nazionale, Via Giordano Rota 1

Firenze, martedì 31 marzo e mercoledì 1 aprile
Teatro Verdi, Via Ghibellina 101

Assisi, martedì 7 e mercoledì 8 aprile
Teatro Lyrick, Via G. D’Annunzio, S. M. Angeli

Roma, da venerdì 10 a domenica 26 aprile
Teatro Sistina, Via Sistina 129

Pescara, martedì 28 e mercoledì 29 aprile
Teatro Massimo, Via Caduta del Forte 15

Torino, venerdì 1 a domenica 3 maggio
Teatro Colosseo, Via Madama Cristina 71

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