Giovanni Scattone rinuncia alla cattedra, ma non al lavoro

Giovanni Scattone rinuncia alla cattedra, ma non al lavoro

Il caso Giovanni Scattone, che ha occupato le pagine dei giornali nei giorni scorsi, è indicativo di alcuni dei problemi che affliggono il nostro Paese. La vicenda è nota e anche molto delicata in quanto coinvolge una famiglia che ha perso una figlia e non ci sarebbe davvero nulla da dire o aggiungere se non fosse che, nella crudezza di contrapposizioni tra innocentisti e colpevoli, ci offre una angolazione diversa per riflettere sul valore del lavoro. Di fronte a noi abbiamo un uomo condannato per omicidio colposo a cinque anni e sette mesi di galera. Un uomo che ha pagato il suo debito con la giustizia tra detenzione, arresti domiciliari e servizio civile. Un uomo che finito questo periodo tenta di tornare a fare il lavoro per cui si è formato e ha passato un concorso: l’insegnante, professione che peraltro ha esercitato negli ultimi anni con il ruolo di supplente. In un Paese normale non ci sarebbe nessun problema. Le polemiche feroci di questi giorni, l’indignazione popolare a mezzo stampa e social network e i titoli di giornali e telegiornali ci dicono tuttavia che siamo ancora lontani dalla normalità. Il carcere ha oggi in Italia tutt’altro che un valore rieducativo (come scritto nell’articolo 27 della nostra Costituzione, tanto citata dai legalisti nostrani quanto ignorata al momento opportuno), la condanna sembra al contrario avere quel profumo di eternità che segna per sempre la vita di una persona.

È già stato detto, da chi crede nello Stato di diritto, che non esiste alcuna base legale per cui debba essere negato a un ex-carcerato il diritto al lavoro, a meno che non sia espressamente sancita l’interdizione ad alcuni ruoli o impieghi. Noi possiamo aggiungere che il lavoro non è solo un diritto e forse anche un dovere, come è scritto nella Costituzione, ma prima di tutto anche un bisogno per la persona per dare valore alla propria esistenza. Negare a una persona il diritto di lavorare, se la legge o una sentenza non lo vieta, equivale a minare alla base la possibilità di realizzarsi come persona all’interno della società e di costruire tramite il lavoro quelle relazioni che danno significato alla vita.

Uno dei pochi casi in cui l’ex condannato è stato in grado di trovarsi un mestiere e non di andare a inserirsi in quella fascia della società composta da ex-carcerati che sono per la maggior parte disoccupati

In questo caso la negazione di tale diritto non è avvenuta per via legale ma attraverso una campagna di incitazione alla pubblica vergogna che è sintomo di un atteggiamento grave e preoccupante. Il giustizialismo come approccio alla condanna (e spesso all’indagine) si sposa con la ricerca continua del nemico, del soggetto a cui additare tutti i mali di cui non sappiamo dare spiegazione ma che genera in noi quasi un effetto liberatorio, il celebre capro espiatorio di Rene Girard. Il caso di cui parliamo non è che uno dei tanti esempi che si potrebbero fare, e non sarà certo l’ultimo. Rispetto ad altri casi, qui la situazione è aggravata dal fatto che l’attacco mediatico si è rivolto a uno degli aspetti che più hanno a che fare con il rientro in società di un condannato: il lavoro. Come se lavorare o non lavorare fosse la stessa cosa e come se una persona che ha sbagliato e per questo ha pagato potesse prendersi il lusso di non lavorare o peggio di essere condannato ad un lavoro senza contatto con altre persone. Il tutto in uno dei pochi casi in cui l’ex condannato è stato in grado di trovarsi un mestiere e non di andare a inserirsi in quella fascia della società composta da ex-carcerati che sono per la maggior parte disoccupati.

Ecco, il caso Scattone in sé interessa poco perché non conosciamo i dettagli dei fatti e la vicenda. Ci importa invece toccare con mano il fatto che una società che non coglie il valore che il lavoro può avere nella vita di una persona fatichi a sviluppare per tutti logiche inclusive e di vero ascolto dei bisogni della persona. Tutti concentrati nella difesa di vecchie o nuove tutele, spesso ci dimentichiamo che il primo diritto è ad avere un lavoro e, ancor più importante, questo si accompagna al dovere che la persona sente nei confronti di sé stessa, della sua famiglia e della società a impegnarsi nella realtà, lavorando. Ce lo ha fatto capire lo stesso Scattone quando nel rinunciare a un suo diritto non ha inteso rinunciare al lavoro. Farò l’imbianchino, ha detto, e questo a significare appunto che per lui e per tutti noi il lavoro è prima di ogni altra cosa un bisogno e una identità e solo dopo un terreno di diritti e di doveri. Non possiamo che augurarci che a vincere sia questo desiderio e non l’oppressiva ombra di chi riduce la persona ai suoi errori e sbagli, anche quando sono stati pagati.