TaccolaSe l’Italia vuole crescere deve credere nell’innovazione aperta

Le grandi imprese usano sempre più le startup per sviluppare nuovi progetti. Telecom sta tracciando una strada e le regioni possono dare una mano. Perché, piaccia o meno, i soldi europei passano da loro

Tutti conoscono Android come il sistema operativo di Google. Ma pochi ricordano che a svilupparlo fu una start up, poi inglobata dal colosso di Mountain View. Niente di eccezionale nella Silicon Valley, dove le aziende più grandi arrivano ad acquisire una start up al mese. Le piccole imprese innovative con queste “exit” assicurano assegni milionari ai loro giovani imprenditori, magari seriali. I big fanno quella che viene chiamata “provvista di innovazione” in tempi rapidissimi: prendono idee, brevetti e talenti senza perdere tempo con progetti di ricerca e sviluppo gestiti da dipartimenti interni. È così che negli ultimi cinque anni in Silicon Vally sono stati spesi oltre 500 miliardi di dollari per operazioni di venture capital. In Italia nello stesso periodo i soldi investiti sono stati pari a 2,5 miliardi. Niente, o quasi.

Nella Silicon Valley le aziende più grandi arrivano ad acquisire una start up al mese

La distanza tra start up innovative e grandi imprese sta però cominciando a ridursi, anche grazie a quella che viene definita “open innovation”. Se ne è parlato nella giornata inaugurale della Smau, Ia fiera annuale sulla tecnologia che si tiene a Fieramilanocity. «Non credo che dovremmo copiare la Silicon Valley. Possiamo trovare una via italiana. Storicamente le grandi imprese e le start up sono state distanti, ma si può costruire un’osmosi di questo tipo nel nostro tessuto imprenditoriale», ha detto Gianluca Dettori, presidente dell’incubatore di start up Dpixel. Un esempio da seguire, secondo il presidente di Smau, Pierantonio Macola, è quello di Telecom Italia, che con il progetto Tim #Wcap sta selezionando nuovi fornitori tra le start up. «Hanno un fondo speciale – ha spiegato Macola – per selezionare le start up più interessanti e comprare in modo privilegiato i loro servizi». Lo scopo non è diverso da quello in voga a San Francisco: accedere a talenti che hanno idee laterali e che sviluppano soluzioni che non verrebbero in mente a chi opera in un mercato da molto tempo.

La distanza tra start up innovative e grandi imprese sta però cominciando a ridursi, anche grazie a quella che viene definita “open innovation”

Questa osmosi, però, va guidata e a spiegare come ci ha pensato Enrico Trovati, responsabile del marketing business di Tim. «Il punto chiave è avere un approccio pragmatico – ha detto dal palco -. Il tema, quando selezioniamo le start up, non è essere dei mecenati, ma stimolarle a fare cose che ci interessano. In molti casi abbiamo spinto le Pmi a sviluppare progetti che erano di contorno rispetto alla loro attività principale, ma che a noi servivano». Quello che le Pmi così selezionate ricevono in cambio è un rapporto di fornitura stabile.

In questo sistema di “innovazione aperta” dichiara di credere anche la società fornitrice di soluzioni tecnologiche Cisco. «A livello internazionale abbiamo acquisito 182 start up in 30 anni – ha detto Agostino Santoni, ad di Cisco Italia -. Ora bisogna credere nei sistemi aperti. Sono convinto che il tipo di innovazione e capacità delle nostre persone ci farà ridisegnare i grafici della nostra crescita. Tutti i colleghi mi parlano di quanto siano bravi gli americani o i tedeschi, ma noi possiamo fare meglio della Silicon Valley».

Bisogna credere nei sistemi aperti. Sono convinto che il tipo di innovazione e capacità delle nostre persone ci farà ridisegnare i grafici della nostra crescita. Possiamo fare meglio della Silicon Valley».


Agostino Santoni, ad di Cisco Italia

Perché allora nascono cose fantastiche nella Silicon Valley e non qui? «Non si è creata una piattaforma di networking, un tessuto connettivo», risponde Giuliano Noci, prorettore del Politecnico di Milano. Nel Paese che ha avuto il vanto dei distretti, ha aggiunto, per arrivare a una crescita vera di queste realtà serve un nuovo modello di business, meno individualista. E poi servono i fondi, perché se le idee ci sono, i soldi sono pochi.

Quelli pubblici, per l’innovazione delle Pmi, oggi vengono soprattutto dall’Europa e passano dalle regioni. La sola Regione Campania avrà a disposizione per l’innovazione 2,4 miliardi di euro nei prossimi sette anni, la Regione Lombardia ha appena deciso di indirizzare 600 milioni di euro verso la “manifattura 4.0”. «Le regioni possono essere gli hub che mettono in contatto i vari soggetti», dice Noci, che a Linkiesta non nasconde le perplessità verso il sistema che ne risulta, estremamente frammentato. «Servirebbero almeno dei sistemi macroregionali, perché non ha senso dividere per ragioni amministrative un sistema di fatto unico, come quello che collega senza soluzione di continuità le imprese da Milano a Modena».

«Oggi le regioni giocano un ruolo fondamentale – aggiunge Dettori -. Piaccia o meno, in tutta Europa questi fondi passano da regioni o enti territoriali simili. Quello che le nostre regioni devono imparare a fare è riuscire a spendere, vincendo i bandi per i finanziamenti, e spendere bene. Per esempio si dovrebbero spostare i fondi del progetto Horizon verso applicazioni più pratiche».

I soldi pubblici per l’innovazione delle Pmi oggi vengono soprattutto dall’Europa e passano dalle regioni. La sola Regione Campania avrà a disposizione per l’innovazione 2,4 miliardi di euro nei prossimi sette anni, la Regione Lombardia ha appena deciso di indirizzare 600 milioni di euro verso la “manifattura 4.0”