Nell’era della viralità digitale le piccole imprese non possono solo fare le cose che facevano le grandi corporation, compresa una distruzione di modelli economici fino ad allora imperanti. Oggi sono solo le piccole imprese che possono, attraverso l’applicazione di algoritmi, fare quello che le grandi imprese non riuscirebbero mai fare, se non autodistruggendosi.
È il meccanismo della “blockchain” che, spiega Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente di strategia aziendale alla Bocconi, in campo finanziario rende una piccola azienda potenzialmente più forte non solo di grandi banche ma anche delle stesse banche centrali.
Ma questa rivoluzione ha un prezzo, e dobbiamo esserne consapevoli: crea una società con pochissime persone ben pagate, moltissime pagate il minimo necessario per servizi di bassa qualità e in mezzo un mondo dominato dai robot fisici o logici. E un mondo in cui le piccole imprese possono sì farcela, ma in una logica da “Highlander economy”: per ogni esigenza soddisfatta può farcela una sola. Tutte le altre sono destinate al fallimento e l’unica consolazione è che di funzioni da soddisfare ce ne sono sempre di nuove.
Partiamo dai casi concreti: Whatsapp ha 55 dipendenti. Altre, come Airbnb o Spotify sono società con pochissimi lavoratori che stanno cambiando lo scenario mondiale nel turismo e nella musica. Lo stesso hanno fatto pochi anni prima prima servizi come Skype ed Expedia e, agli albori della rivoluzione di Internet, Napster. Oggi è l’era della viralità che parte dalle piccole imprese?
Airbnb è un classico caso di viralità e rimane una piccolissima azienda, fatta di enormi patti distribuiti. Il nome corretto della viralità, dal punto di vista organizzativo, è “riduzione delle asimmetrie organizzative e standardizzazione dei meccanismi di coordinamento e incentivazione”. Poi la chiamiamo viralità perché fa figo.
Ok. Proviamo a capire di che si tratta.
Quello che succede è in primo luogo che tu riduci le asimmetrie tra impresa e mercato. Oggi una piccola impresa che rende pubblici i modelli di organizzazione, e che come Airbnb e Uber fa cascare sul mercato un’app, riduce le asimmetrie tra domanda e offerta (avvicina cioè i consumatori e le imprese, ndr). In secondo luogo il prezzo di mercato e gli incentivi si spostano sul fronte “open”. Prima l’incentivazione era questa: “io impresa grande ti pago e ti prometto una grande carriera se lavori con me”. Oggi una piccola impresa come Airbnb crea un nuovo sistema di incentivi: si limita a creare un mercato, una distribuzione tra domanda e offerta (cioè tra cui offre servizi e chi ne usufruisce, ndr). E a quel punto quella che lei chiama viralità e che per me è sostanzialmente un rapporto di mercato, si impadronisce di questi meccanismi semplici e li rende redistribuiti.
C’è quindi il trionfo delle piattaforme che fanno incontrare clienti e fornitori di servizi, rispetto alle classiche organizzazioni aziendali. Questo accade già ora su vari fronti, dal turismo ai trasporti. Quello delle banche potrebbe essere il prossimo settore colpito, a causa dell’onda d’urto del “social lending” ?
Sicuramente il meccanismo più estremo del concetto di viralità sono le blockchain. Perché sono una viralità predisegnata, governata dalla matematica, non dal marketing. Una volta che viene adottata diventa una forza irresistibile, più grande della maggiore impresa. È la seconda fase questo processo. La prima è che le piccole imprese possono fare quello che una volta facevano solo le grandi. La seconda dice una cosa diversa: solo le piccole imprese possono fare ciò che le grandi imprese non riusciranno mai a fare, che è quello di creare blockchain. C’è un’inversione completa. La blockchain cos’è? È un sistema di regole matematiche che ogni micro-organizzazione può adottare: crea una grande organizzazione di atomi indipendenti che però adottano tutti la stessa regola. È qualcosa che funziona solo con la viralità. Cioè, funziona solo se raggiunge una massa critica di certificazioni. A quel punto nessuna singola grande impresa riuscirà a batterla. Neanche il monopolista estremo. Cosa c’è di più grande della banca centrale, dal punto di vista concettuale? Ebbene, la blockchain è più grande ancora della grande centrale. Perché la banca centrale ha una giurisdizione sul suo perimetro monetario: anche Draghi oltre all’euro non va. Mentre la blockchain non ha limiti. Per cui per definizione mi dispiace ma Draghi non ce la fa a battere la viralità lillipuziana delle blockchain.
La prima fase del processo è che le piccole imprese possono fare quello che una volta facevano solo le grandi. La seconda dice una cosa diversa: solo le piccole imprese possono fare ciò che le grandi imprese non riusciranno mai a fare, che è quello di creare blockchain. È un’inversione totale
Le grandi aziende non creano le blockchain anche perché dovrebbero autodistruggersi.
Sì, cosa che non faranno mai, ovviamente. E in effetti si stanno cercando un ruolo diverso. Le blockchain non vanno viste come una antitesi alla moneta attuale o come un modello anarchico, ma come un modello di sussidiarietà. Cioè: se lo possiamo fare noi, fate un passo indietro e fate dell’altro, care istituzioni. Il principio di sussidiarietà è un principio democratico, liberale, incorporato nelle istituzioni. Non si tratta di fare rivoluzioni. Si tratta di accettare un principio dell’Unione europea: se qualcosa può essere fatta a livello decentrato, va fatta a livello decentrato.
«Se una blockchain raggiunge una massa critica nessuna singola grande impresa riuscirà a batterla. Neanche il monopolista estremo. Mi dispiace ma neanche Draghi non ce la fa a battere la viralità lillipuziana delle blockchain»
Si potrebbe dire che “piccolo è bello”. Ma non rischia di essere solo un’illusione per le piccole imprese? Moltissime idee rivoluzionarie non hanno visto la luce perché non c’era dietro un’organizzazione aziendale che permettesse uno sviluppo. Come la vede?
La vedo in maniera biologica: le piccole imprese sono come uno sciame di spermatozoi. È evidente che il tasso di insuccesso è altissimo. È ovvio ed è sempre stato stato così. Nel momento in cui hai tantissime imprese, solo alcune vanno avanti. Soprattutto nel digitale, che è una “Highlander economy”: se anche ne partono mille, ne arriva comunque una sola. Sono tutti business ad altissima economia di scala, che spingono verso situazioni di monopolio naturale, per cui non è che facciamo il piccolo è bello e quindi tutti hanno legittimazione ad esistere. Piccolo è indispensabile, perché altrimenti non ha questi elementi di viralità. Ma alla fine ne rimane solo uno, per citare il film Highlander.
«Le piccole imprese sono come uno sciame di spermatozoi. Soprattutto nel digitale, che è una “Highlander economy”: sono tutti business che spingono verso un monopolio naturale: ne rimane una sola»
Tra i suoi studenti è stata assorbita l’idea che in pochi possono cambiare le cose e che pochissimi ce la faranno?
C’è una presa d’atto che o si fa così o c’è poco altro. L’idea di avere un percorso di carriera garantito non esiste più. La gente adesso ha molta più propensione ad avere idee e azioni. Prima si diceva: faccio i colloqui con le grandi aziende. La quantità di persone che oggi mi viene a dire “ho una business idea” è superiore. Questo però non è garanzia del fatto che avranno successo. Certamente in un mondo complesso e digitale i layer sono tantissimi. Non c’è un numero finito di possibilità di successo. C’è un numero finito di posti in un layer di successo.
Che tipo di società esce fuori da aziende che con un algoritmo spazzano via tutto quello che incontrano? A guardare gli ultimi dati sull’occupazione sembra che alcuni lavori si distruggono, altri se ne creano, ma quelli che si creano sono bassi di livello.
L’evoluzione tecnologica polarizza i lavori. Ne fa pochi ad altissima scala, come nel caso di chi scrive software, e tanti a bassissima scala. Immaginiamo una curva gaussiana (dalla tipica forma a “cappello”, ndr): la componente centrale è aggredita dai robot, fisici o logici, perché un algoritmo è un robot logico. Quindi il lavoro viene sparato ai bordi, viene espulso dal centro. Per questo la classe media è in difficoltà. Non perché c’è un destino cinico e baro, perché è colpa dell’euro o altre sciocchezze. Ma perché il dato microeconomico di fondo è che l’economia viene disintermediata nel suo processo. Se c’è massa critica, e questo avviene al centro della gaussiana, ci sono le condizioni di economia di scala e di scopo per poter automatizzare i processi. Di conseguenza arrivano i capitali, investono e progressivamente sostituiscono i lavoratori con i robot. Quindi quella componente viene erosa e rimangono le due code della gaussiana. Quella della complessità estrema viene pagata, perché sono i famosi programmatori che creano valore. Mentre l’altra, quella dei lavori che costerebbe troppo formalizzare e che richiedono flessibilità, è pagata a un costo marginale: siccome non posso farne a meno devo pagare qualcuno. Sono lavori a logica da salario minimo, perché parliamoci chiaro: quello è il valore che produce. Non è che il mercato è brutto e cattivo. Il mercato paga quello che un servizio vale. Vale per molti lavori, anche per i giornalisti.
«L’evoluzione tecnologica polarizza i lavori. Ne fa pochi ad altissima scala, come nel caso di chi scrive software, e tanti a bassissima scala. Immaginiamo una curva gaussiana la componente centrale è aggredita dai robot, fisici o logici»
In definitiva, perché l’organizzazione virale continua ad aumentare?
Qui devo usare un po’ di teoria economica.
Prego.
Abbiamo dato un premio Nobel qualche anno fa alla teoria dei valori dei giochi non atomici, elaborata da Lloyd Stowell Shapley. Shapley ha studiato le formule per cui un gioco collaborativo multiplo produce una ricompensa a ogni giocatore presente nella rete virale in funzione del contributo marginale che apporta ad essa. E siccome un giocatore apporta alla coalizione un contributo che varia in funzione della densità dei giocatori presenti in rete, è fondamentale considerare l’ordine, la sequenzialità con la quale il giocatore si unisce a questa coalizione. Diciamo che deriva dalla teoria dei giochi non a giocatore atomico ma a giocatore collettivo, e spiega con una funzione matematica che fondamentalmente, per fare un esempio, l’algoritmo che alloca i trasferimenti degli insegnanti italiani è più efficiente della visione del burocrate di turno.
Cosa c’entra con la viralità delle imprese?
C’entra: questa teoria economica da premio Nobel è alla base concettuale del fatto che la viralità premia ogni partecipante in funzione del contribuito marginale che esso comporta. E quindi spiega in termini economici perché si formano in queste coalizioni, come le chiamano gli economisti. Sono coalizioni volontarie, non imposte dall’alto, non sono disposizioni del sovrano. Quindi, con la teoria di Shapley si scopre che già c’è una modellizzazione, in questo caso matematica, che spiega questo concetto di viralità. La viralità non è altro che il valore dei giochi non atomici. È la teoria dei contributi nei giochi collaborativi a “n” giocatori, che noi oggi chiamiamo masse virali o masse critiche. Nessuna grande impresa può fare questo. Se si va a vedere il modello, si scopre che nessuna grande impresa può centralizzare la funzione di ottimizzazione, perché è una funzione distribuita. Non c’è il demiurgo che assegna le ricompense in base al tuo contributo, che è il modello organizzativo centrale. È la dimostrazione che si va ben oltre l’idea che le piccole imprese ora sono diventate bravine e quasi fanno come le grandi, che era dove era partito lei. Io dico che c’è un secondo ciclo: le piccole aziende fanno una cosa che le grandi non potranno mai fare, cioè massimizzare la ricompensa in funzione del contributo marginale, e quindi creare masse critiche. Questo concetto si chiama “super-additività”, che è la traduzione economica del concetto di gravità. È cioè l’effetto delle esternalità positive: più siamo e meglio stiamo. Se tutti siamo su Whatsapp, nessuno ha più bisogno di pagare più gli sms e gli operatori, tanto tutti i miei amici sono su Whatsapp. Finché siamo in pochi il risultato non è soddisfacente.