TaccolaEnergia, il ministero fantasma

Ritardi sui decreti per le rinnovabili, tagli retroattivi ai certificati bianchi, tariffe che penalizzano l’autoproduzione di energia. Il ministero dello Sviluppo economico, anche prima delle dimissioni di Federica Guidi, ha mostrato tutte le sue carenze in tema energetico. E le lobby spadroneggiano

Un ministero azzoppato con un ministro che non toccava palla, una guerra tra bande (e tra lobby) che ha portato – a parte quello che chiariranno le inchieste – all’abbandono di una strategia chiara sull’energia, soprattutto sulle rinnovabili. È il quadro impietoso che gli operatori dell’energia fanno del ministero dello Sviluppo economico negli ultimi 26 mesi, da quando è in carica il governo Renzi. «Da due anni il tema dell’energia è stato cancellato», riassume il responsabile di un importante centro studi sull’energia. «Il ministro Federica Guidi non si poteva occupare del tema perché sapeva che appena lo avesse fatto sarebbe caduto per conflitti di interesse, come è puntualmente accaduto. Eni ed Enel hanno bombardato il governo di richieste, con un’influenza che non avevano mai avuto in queste proporzioni. La Strategia energetica nazionale è stata dimenticata. Il Gestore dei servizi elettrici ha tagliato retroattivamente gli incentivi all’efficienza energetica. C’è stato il blocco totale di tutti i progetti di sviluppo delle rinnovabili e dei sistemi di stoccaggio dell’energia elettrica. Per non parlare dei piani sull’auto elettrica, inesistenti per l’azione di lobbying di Fca». Il quadro si completa con un dettaglio: quando il vero dominus del Mise, il viceministro Claudio De Vincenti, nell’aprile 2015 lascia il ministero per diventare sottosegretario a Palazzo Chigi, le deleghe sull’energia non vengono attribuite per quasi un anno, fino alla loro assegnazione il 3 marzo 2016 a Teresa Bellanova.

Un anno in cui hanno preso sempre più forza strutture tecniche, come il Gse (Gestore dei Servizi elettrici) e l’Autorità dell’Energia (Aeegsi), e in cui decisioni strategiche sono state demandate al Parlamento o fuori dal Mise (con De Vincenti che continuava a seguire le questioni da Palazzo Chigi), con scontri tutti interni al Pd. Come quello che ha riguardato l’ultimo Ddl concorrenza sulla fine del servizio di maggior tutela per le tariffe dell’energia per le famiglie.

Il risultato di tutto questo? Un ritardo, soprattutto sul fronte delle rinnovabili, che fa a pugni con gli annunci di velocità e di spinta all’innovazione che da sempre contraddistinguono la figura del premier Renzi. E una mancanza di una linea strategica che porti a provvedimenti organici. Una situazione denunciata da due delle riviste più in vista del settore: Qualenergia.it, che ha dedicato un editoriale dal titolo emblematico, “Trivelle, ma neanche uno straccio di strategia energetica”, e Staffetta Quotidiana, che chiede di “restituire autorevolezza politica al Mise”. «Dopo 26 mesi di governo aspettiamo che il governo faccia qualcosa per il settore delle rinnovabili – dice a Linkiesta Leonardo Berlen, responsabile della redazione di QualEnergia.it -. Non servono incentivi ma regole chiare e stabili. Vanno semplicemente create le condizioni di mercato i cui gli operatori possano agire».

«Eni ed Enel hanno bombardato il governo di richieste. La Strategia energetica nazionale è stata dimenticata. Il Gse taglia retroattivamente gli incentivi all’efficienza energetica. C’è stato il blocco totale di tutti i progetti di sviluppo delle rinnovabili e dei sistemi di stoccaggio dell’energia elettrica. Per non parlare dei piani sull’auto elettrica, inesistenti per l’azione di lobbying di Fca»

Rinnovabili, decreti attuativi in ritardo

Per esemplificare quanto invece regni l’incertezza, chi opera nell’energia, cita soprattutto due provvedimenti: il decreto attuativo relativo al biometano e quello relativo alle fonti rinnovabili di energia elettrica non fotovoltaica (Fer). Il primo permetterebbe di purificare il biogas prodotto dagli scarti animali e vegetali in modo da immettere il gas nella rete di metano. È un provvedimento chiave per far raggiungere all’Italia il 10% di fonti rinnovabili nei trasporti entro il 2020, come prevedono gli impegni con l’Ue, ma è tutto bloccato. Un decreto ministeriale in realtà c’è dal dicembre 2013 (attuazione di un Dlgs del 2011) ma la sua applicazione, spiegano gli esperti del settore, è bloccata da una serie di mancanze. Solo in parte, va detto, sono imputabili al Mise. Ci sono i provvedimenti che devono arrivare da Gse e Aeegsi e quelli del Comitato italiano Gas (Cgi). E ci sono le decisioni della Commissione europea: da quando ha annunciato che tutti i Paesi europei dovranno seguire gli stessi standard, sono tutti in attesa, tranne Germania, Olanda e Svezia che erano partiti prima di questo annuncio. Quello che chiedono le associazioni di categoria è che si faccia una forzatura e si seguano direttamente le linee guida tedesche. «Abbiamo rumors che ci dicono che si possa ricominciare da capo, con un nuovo decreto che permetta di partire anche prima della decisione in Europa», dicono a Linkiesta da AssoRinnovabili.

Il secondo decreto bloccato è ancora più grave, perché un intero settore, quello delle rinnovabili non fotovoltaiche, è in stallo per colpe in gran parte italiane. Da un anno e mezzo va avanti il rimpallo delle bozze tra Mise, ministero dell’Agricoltura e quello dell’Ambiente di un provvedimento che era atteso a fine 2014 per regolare gli incentivi di 2015 e 2016. Le ultime grane sono arrivate dalla direzione generale concorrenza della Commissione europea, che a dicembre si era presa 60 giorni per dare uno sblocco. «Invece siamo arrivati ad aprile – commentano da AssoRinnovabili -. Forse il rimpallo è terminato, ci aspettiamo novità per maggio (novità sono state annunciate l’8 aprile, ndr). Certo, sarà un provvedimento che riguarderà solo gli ultimi mesi del 2016. Poi servirà un nuovo decreto per il 2017-2020, ci auguriamo di non dover aspettare altri due anni». Lo stesso Renzi, ministro dello Sviluppo economico ad interim, potrebbe dare un segnale sbloccando le due questioni.

Se i ritardi sui decreti attuativi creano nervosismo, i provvedimenti relativi agli sgravi per chi ha impianti di autoproduzione stanno generando una ribellione

La scure sulle agevolazioni per le rinnovabili

Se i ritardi sui decreti attuativi creano nervosismo, i provvedimenti relativi agli sgravi per chi ha impianti di autoproduzione stanno generando una ribellione. Tutto nasce dal decreto Milleproroghe, o meglio dalla sua versione definitiva approvata a febbraio dal Parlamento. Assente nella versione presentata dal governo a dicembre, a febbraio è arrivata una norma che sposta gli oneri di sistema dalla componente variabile a quella fissa. Che significa? Che autoprodurre energia, per esempio con pannelli fotovoltaici, sarà molto meno conveniente. Oggi tutti, cittadini e imprese, pagano in bolletta degli oneri di sistema (per pagare ad esempio, proprio gli incentivi faraonici dati al fotovoltaico negli anni passati), che finora sono stati legati al consumo per il 90% e a una componente fissa per solo il 10 per cento. Chi produce energia da fonti rinnovabili per il proprio consumo (per esempio di una casa), attinge a meno energia dalla rete. Più gli oneri sono legati al consumo e più i produttori in proprio risparmiano; viceversa, più gli oneri si spostano verso la componente fissa, minore è il risparmio. «Abbiamo calcolato che fino al 70% di oneri legati al consumo ci sarebbe ancora un minimo di convenienza per le rinnovabili, se si scende finisce tutto», dicono da Assorinnovabili.

Il problema, in questo caso, è che siamo di fronte a una vera schizofrenia: «Il Milleproroghe ha completamente contraddetto un filone strategico per incentivare le rinnovabili, che era stato avviato solo pochi anni prima», dice l’avvocato Emilio Sani, consigliere di Italia Solare. «Giustamente i governi precedenti avevano deciso di concentrarsi sull’autoproduzione, superando l’era del Conto energia», che prevedeva incentivi alla produzione estremamente generosi, sebbene via via calanti nelle cinque successive versioni. Autoproduzione vuol dire pannelli sui tetti delle case e dei capannoni, un cambio di passo notevolissimo rispetto ai campi fotovoltaici che avevano finito per arricchire soprattutto fondi di investimento stranieri. Ora però tutto è messo in discussione e una decisione chiave lo giocherà l’Autorità per l’energia. «È l’Aeegsi che dovrà decidere la percentuale, le è stato delegato un grande potere», dicono da AssoRinnovabili.

«Il Milleproroghe ha completamente contraddetto un filone strategico per incentivare le rinnovabili, che era stato avviato solo pochi anni prima. Giustamente i governi precedenti avevano deciso di concentrarsi sull’autoproduzione, superando l’era del Conto energia»


Emilio Sani, consigliere di Italia Solare

I tagli retroattivi ai certificati bianchi e il panico dell’industria

La questione di un potere sempre maggiore che, in assenza di una guida salda al governo, sarebbe finito sempre di più a organismi tecnici come il Gse e l’Aeegsi, è controversa e non vede tutti d’accordo. Ma c’è un fatto: gli interventi del Gestore dei servizi elettrici si sono fatti molto più pesanti da quando al vertice del Gse c’è Francesco Sperandini, nominato nel luglio 2015. Non si tratta di iniziative personali, ma di una politica, attuata su input del governo (anzi, degli ultimi governi) di vigilare su come vengono distribuiti gli incentivi. Nobile intento, che però ha avuto come conseguenza interventi con effetto retroattivo.

Vere ondate di panico si registrano in queste settimane da parte di chi lavora nelle società che si occupano di efficienza, ma anche delle industrie energivore. Associazioni come Federacciai, Assocarta, Assolombarda, Federchimica e i produttori di cemento e calce temono di vedersi annullate le agevolazioni ottenute per interventi di risparmio energetico ottenuti negli scorsi anni. Ogni finanziamento, in queste condizioni, viene considerato più rischioso dalle banche. «La questione non è calda, è ustionante. I tagli retroattivi stanno creando un blocco totale degli investimenti. È un danno da cui ci vorranno anni per riprendersi», dice a Linkiesta il titolare di una “esco” (società che si occupano di risparmi energetici) che preferisce non essere citato. «Le aziende italiane della filiera del risparmio energetico sono un’eccellenza nel mondo e il meccanismo italiano dei certificati bianchi è stato premiato in Europa come il migliore sistema di incentivi – continua -. Eppure il governo lo sta smantellando, peraltro senza una normativa. Non stiamo parlando dei 12 miliardi di euro all’anno che vanno alle rinnovabili, stiamo parlando di 6-700 milioni all’anno. Uno studio dell’Aeegsi ha stimato che a parità di Tep (tonnellate equivalenti di petrolio), il costo del risparmio energetico è del 97% inferiore a quello delle rinnovabili». A innervosire il settore, come si legge in un’analisi di Staffetta Quotidiana, è che gli interventi del Gse vengono visti come discrezionali e gli operatori chiedono che siano pubblicati i criteri di valutazione.

L’intervento retroattivo sugli impianti già finanziati è stato previsto anche dal decreto Spalma-Incentivi. Considerato l’unico grande intervento del governo in tema di energia, ha previsto anche degli sconti nelle bollette delle Pmi. Ma si è guadagnato una sorta di class action da un migliaio di operatori nel settore delle rinnovabili, perché ha previsto tempi di erogazione più lunghi (e quindi minore spesa annuale) per gli incentivi. «Abbiamo fatto un ricorso alla Corte Costituzionale, entro la prima metà del 2017 sapremo se il decreto sarà dichiarato incostituzionale», dicono da AssoRinnovabili. Il secondo grande intervento sull’energia, previsto dallo Sblocca Italia e relativo alle trivelle per l’estrazione di gas e petrolio, è stato svuotato con una marcia indietro di fronte alla prospettiva dei referendum (il quesito del 17 aprile riguarda infatti solo le concessioni esistenti).

Vere ondate di panico si registrano in queste settimane da parte di chi lavora nelle società che si occupano di efficienza, ma anche delle industrie energivore. Il motivo: i tagli retroattivi ai certificati bianchi

Il Ddl Concorrenza e il futuro delle tariffe

Se la mancanza di una chiara strategia del governo è emersa sul Milleproroghe, lo spettacolo del Ddl Concorrenza è stato quello di un alzare le mani che ha lasciato il campo libero in Parlamento alle lotte tra lobby contrapposte. Qui la partita è ancora tutta aperta. L’oggetto del contendere in questo caso è il destino del servizio di maggior tutela per le bollette della luce e del gas. Il Ddl prevede che dal 2018 questo sistema, che ha permesso a milioni di cittadini italiani di avere una tariffa fissata dall’Autorità dell’energia, come alternativa alle offerte su libero mercato, finirà. Lo scopo è favorire maggiormente la concorrenza, sebbene finora il mercato non si sia rivelato a conti fatti più conveniente. Il punto, allora, è che cosa fare dei contratti che gli italiani hanno con i distributori di energia. Attualmente le utenze sono in gran parte (74%) sotto l’Enel e alcuni emendamenti vanno nella direzione di evitare eccessive concentrazioni in un solo operatore (e senza la tutela dell’Autorità dell’energia).

Una soluzione è quella di dividere le utenze in vari pacchetti e metterli all’asta tra gli operatori. Una scelta non lineare ma che permetterebbe di evitare concentrazioni di mercato. Tuttavia, per incentivare il passaggio a operatori di mercato, si ipotizza in sostanza di applicare tariffe alte a seguito delle aste. Altri sub-emendamenti chiedono invece che le aste siano al ribasso. Un groviglio. La partita, aggiunge Staffetta Quotidiana, si è raffreddata dopo le dimissioni della ministra Guidi, che era stata vista come lo sponsor principale della fine del servizio di tutela.

Per far capire il clima, anche nella maggioranza, il giorno stesso delle dimissioni della Guidi c’è stata una dura presa di posizione del presidente della Commissione Industria del Senato, Massimo Mucchetti (Pd): «Quella telefonata (su Tempa Rossa, ndr) ha comportato un prezzo che Guidi ha doverosamente pagato. Gliene va dato atto – ha sostenuto il senatore del Pd -. Ma non possiamo far finta di non vedere il conflitto di interessi ben maggiore che è recentemente emerso nell’azione di governo dell’ex ministra e che coinvolge la maggioranza. Nel ddl Concorrenza si prevede il superamento del servizio in maggior tutela nell’ambito del mercato elettrico, già liberalizzato nel 2007, in modo tale da favorire l’Enel e danneggiare i consumatori. La Ducati Energia, azienda bolognese che appartiene alla famiglia Guidi, è fornitrice dell’Enel. Lo impariamo dallo stesso sito internet dell’azienda».

Non solo: «È stato finora inutile – aggiunge il senatore – ogni tentativo di convincere il ministero e la maggioranza a correggere la distorsione della concorrenza insita nel suo modo di superare la maggior tutela. Nel frattempo, noto che, quando si trova davanti a un’intercettazione telefonica, il governo trema e scatta, mentre non vede nulla, diciamo così, quando deve ragionare e decidere da solo, senza il pungolo dei magistrati».

«Nel ddl Concorrenza si prevede il superamento del servizio in maggior tutela nell’ambito del mercato elettrico, già liberalizzato nel 2007, in modo tale da favorire l’Enel e danneggiare i consumatori. La Ducati Energia, azienda bolognese che appartiene alla famiglia Guidi, è fornitrice dell’Enel»


Massimo Mucchetti, senatore Pd, presidente Commissione Industria Senato

Batterie e smart grid, solo cosmesi

Quanto le scelte del governo abbiamo mancato di visione di capacità di cogliere le opportunità che venivano dal mercato si può vedere, dicono consulenti e operatori del settore sentiti da Linkiesta, nella scarsa iniziativa dimostrata nel campo dei sistemi di “storage” e delle smart grid. I sistemi di storage sono accumulatori di energia elettrica, come delle grandi batterie. Le versioni più pop sono quelle presentate da Tesla lo scorso anno in pompa magna. Nel caso del fotovoltaico possono cambiare radicalmente le regole del gioco, perché permettono di consumare di sera l’elettricità accumulata di giorno. Sotto accusa non sono tanto le regole del Gse, che ha imposto delle verifiche su ciascun per capire come adeguare l’incentivo già concesso in base alle nuove rese ottenute con le batterie. Quanto, piuttosto, la mancanza di un sistema di incentivazione (se non su scala regionale, come in Lombardia) paragonabile a quello varato in Germania.

Si stima, scriveva lo scorso ottobre Qualenergia.it, che in Germania «al momento l’incentivo abbia permesso di installare 15mila sistemi di accumulo, portando il totale a 25mila, che dovrebbero diventare 100mila entro il 2018. Gli ultimi dati di settembre della KfW, la banca pubblica per lo sviluppo che sta gestendo il programma, raccontano che le installazioni di batterie, grazie anche ai costi in calo, continuano ad essere sempre più diffuse: nei primi 7 mesi del 2015 sono state il 35% in più rispetto allo stesso periodo del 2014». Sulle smart grid, invece, sono in corso varie operazioni pilota, che sono però giudicate troppo timide dai critici. Il tutto mentre a livello internazionale i prezzi in ribasso delle rinnovabili stanno dando una spinta eccezionale al settore (come ha mostrato da ultimo un’analisi di Bloomberg), dagli Stati Uniti fino al Costa Rica.

I sistemi di storage nel caso del fotovoltaico possono cambiare radicalmente le regole del gioco. La Germania ha fatto partire grossi incentivi, l’Italia no

La sede della fabbrica di Tesla in Europa? Con tutta probabilità sarà in Francia. L’Italia è fuori gioco (grazie alla Fiat)

Auto elettrica, Tesla va in Francia (e la Fiat gode)

È la stessa mancanza di incisività che viene rinfacciata al governo riguardo alle auto elettriche. Se la Norvegia, grazie ai suoi generosi incentivi (possibili grazie alle riserve petrolifere, va detto), ha portato al 10% la percentuale di auto elettriche sul totale delle nuove immatricolazioni (oltre il 20% contando l’ibrido), l’Italia si ferma allo 0,1 per cento. La distanza è abissale anche rispetto ad altri Paesi, come Olanda (che ipotizza di vietare le vendite di auto a benzina e diesel dal 2025), Germania e la stessa Francia. L’auto elettrica ha una lunga storia di promesse non mantenute, ma il boom di prenotazioni per l’ultimo modello economico (35mila dollari) della Tesla (Model 3) fanno capire che la svolta potrebbe essere vicina, anche perché i prezzi delle batterie sono previsti in discesa quando entrerà la Gigafactory di Tesla nel Nevada. Tesla che, non a caso, ha deciso di aprire una fabbrica anche in Europa. La sede più probabile è la Francia e l’Italia è con ogni probabilità fuori gioco. E non a caso. Se colonnine per la ricarica lenta delle auto elettriche sono state installate in decine di città italiane (658 postazioni in totale), principalmente dall’Enel; e se qualche “fast recharger” si comincia a vedere (solo 5 sono quelle attualmente presenti in Italia, ma decine sono in arrivo), di incentivi non ce n’è l’ombra. «Certamente in questa scelta non aiuta il fatto che il principale produttore di auto abbia investito molto sul metano. Il governo forse ha avuto altre pressioni, che non prevedevano incentivi alle auto elettriche», commenta Francesco Petracchini, ricercatore presso il CNR-IIA e autore del libro “Muoversi in città” (Edizioni Ambiente, 2015). A parte la 500e, prodotta peraltro in quantità limitata per i suoi costi, la Fca non ha mai fatto mistero di non credere all’auto elettrica e Sergio Marchionne lo ha ribadito in più occasioni.

In questo caso un operatore come l’Enel sarebbe invece solo a favore e il suo è un posizionamento che la pone in prima fila qualora le strategie cambiassero. O si palesassero. Perché quello che finora è mancata è proprio una chiarezza strategica degli obiettivi e dei mezzi per ottenerli.

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