Viva la FifaIl mito oltre la papera: Arconada, l’orgoglio basco e quella punizione di Platini

All'estero il portiere spagnolo è ricordato soprattutto per l'errore nella finale degli Europei 1984. Ma Luis Arconada in patria è ancora un mito, per la sua bravura e per la sua coerenza: da basco, non si "piegò" mai a Real e Barça

Puoi stare benissimo e subito dopo commettere un errore. Non accade come agli attaccanti, che dopo tante occasioni sbagliate fanno gol e ci si dimentica degli errori. Sei portiere nel bene e nel male. Devi accettarlo. Nessuno ti obbliga a giocare in quel ruolo.

Per chi ci crede, dicono che i nati sotto il segno del cancro siano introversi ma capaci di graffiare quando serve, nostalgici, spesso legati al passato e alle origini. Quando Luis Arconada, giovane basco di belle speranze con la voglia di fare il portiere arriva alla Real Sociedad, ha appena 20 anni. Nato il 26 giugno del 1954, è nell’estate del 1974 che il San Sebastian, squadra satellite de La Real, decide che è arrivata l’ora che il ragazzo si alleni con i più grandi. In porta, nella squadra che è reduce dalla qualificazione in Coppa Uefa l’anno precedente, si giocano il posto Pedro Marìa Artola e Francisco Javier González Urruticoechea, per tutti Urruti. Il secondo è arrivato dopo, ma è più bravo del primo tanto da essergli spesso preferito come titolare. Urruti è basco di Donostia – quella che in Spagna chiamano San Sebastian – come Arconada. Ed è cresciuto nel Lengokoak, come Arconada. Ed ha grande talento, come Arconada.

Urruti non è un portiere qualsiasi. Nel 1984-85 vincerà la Liga con la maglia del Barcellona, raggiungendo al Camp Nou Steve Archibald e Bernd Schuster, con i quali farà da spina dorsale ai Bluagrana di Terry Venables capace l’anno successivo di arrivare in finale di Coppa Campioni, poi persa contro la Steaua Bucarest. Barcellona sarà la città che lo ospiterà negli anni migliori della carriera: prima Espanyol, poi Barça: meglio confrontarsi con il ricordo di grandi portieri come Ricardo Zamora e Antoni Ramallets, piuttosto che restare a San Sebastian e farsi rodere il fegato da quel ragazzino così tranquillo ma capace di metterlo in disparte nel giro di un paio di stagioni.

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Essere grandi portieri e baschi è un destino che fa parte del calcio spagnolo. Iribar, Urruti, Arconada. O Arkonada, come scrivono a Donostia. Nelle basse maree del Golfo di Biscaglia, dove le acque fredde dell’Oceano Atlantico vengono a riparare, i ragazzini si divertono a giocare, frustati dalla pioggia, dal vento: qui chi gioca in porta deve avere una vista e una forza migliore di gioca al caldo andaluso, ad esempio. Quando Luis arriva a La Real, deve solo prendersi tutti il tempo che gli serve. Artola resiste una stagione, poi nel 1975 va al Barcellona. Arconada è così il secondo portiere e il 22 ottobre del 1975 esordisce in Coppa Uefa, contro il Liverpool. A fine stagione, Arconada si è guadagnato il posto da titolare e Urruti, pur di giocare, ripara all’Espanyol.

L’avvicendamento in porta è l’ultimo tassello di una squadra che nel 1979-80 arriva seconda in Liga per un soffio. E che l’anno successivo vincerà il campionato, per un soffio. Nel 1980 la sconfitta di Siviglia aveva interrotto una striscia di 38 partire consecutive senza sconfitte. La base c’è ed è innestata su giocatori come il difensore Ignacio Kortabarria (che nel 1981 farà 5 gol su rigore) e l’attaccante Jesus Maria Satrùstegui, guidati in campo da un esperto allenatore come Alberto Ormaetxea Ibarlucea, uno talmente amato che dalla sua morte ogni anno le basche Real Sociedad, Athteltic Bilbao e Eibar si affrontano in un triangolare a lui dedicato. E poi c’è Jesu Maria Zamora, centrocampista: il suo gol sotto il diluvio di Gijon a pochi secondi dal termine, che permette a La Real di scavalcare il Real Madrid di Boskov, è ancora oggi un’icona che trovate in giro a San Sebastian.

Arconada è il protagonista indiscusso di tutta la stagione. Un muro, anche se gli txuri-urdin lo chiamano El Pulpo: le sue mani arrivano ovunque. Ma ad impressionare è l’elasticità del corpo, che gli permette di allungarsi e prendere palloni a un passo dall’infilarsi nel sette. Il coro che lo accompagna quando si gioca all’Atocha è “No pasa nada, tenemos a Arconada”. Non passavano, i gol: nel 1980 vince il suo primo Trofeo Zamora come miglior portiere della Liga: si ripeterà nei due anni successivi, quando con il club biancoblu vincerà un’altra Liga, la Supercoppa spagnola ed arriverà fino alla semifinale di Coppa Campioni, battuti dall’Amburgo poi vincitore finale. A Madrid lo vogliono in porta, a Barcellona anche (Urrutia suda freddissimo), ma quelli del cancro sono legati alle origini: Arconada resterà alla Real Sociedad tutta la vita, che tradotto significa 414 partite in campionato, due Liga vinte più una Supercoppa spganola e una Copa del rey che lo vide protagonista ai rigori

Un muro, anche se gli txuri-urdin lo chiamano El Pulpo: le sue mani arrivano ovunque. Ma ad impressionare è l’elasticità del corpo, che gli permette di allungarsi e prendere palloni a un passo dall’infilarsi nel sette. Il coro che lo accompagna quando si gioca all’Atocha è “No pasa nada, tenemos a Arconada”.

Ma il suo grande successo resta vincere il titolo contro Madrid, con il ricordo del franchismo che ancora brucia. Il Caudillo era morto nel novembre del 1975 e l’anno dopo Real Sociedad e Athletic Bilbao, acerrime nemiche, erano scese in campo prima di una gara reggendo l’ikurriña, la bandiera basca, alla sua prima uscita pubblica dopo la fine del regime di Franco. Uno dei due capi della bandiera era retta da Iribar, che nel 1964 aveva vinto l’Europeo con la Spagna ma che si considerava fieramente basco, tanto che a fine carriera si avvicinerà al Batasuna, ovvero a quello che è sempre stato considerato il braccio politico dell’Euskadi Ta Askatasuna, l’Eta. Per Arconada, che di Iribar è ormai erede naturale, il rapporto con la Seleccion è nel segno della simbologia politica. Quelli del cancro sono ancorati al passato, alle tradizioni, ricordate? Così che quando Luis indossa la casacca della nazionale, mantiene i calzettoni bianchi del proprio club, anziché mettere quelli ufficiali, che prevedono la presenza della bandiera spagnola. Nel Paese, che nel 1982 ospita il Mundial che deve ripulirne l’immagine dopo gli anni del franchismo, si urla allo scandalo. Anche in campo, c’è chi non manca di urlare. “Assassino”, soprattutto: negli anni Settanta, in particolare, l’azione degli etarras si era fatta molto intensa e culminata con gli attacchi di Madrid del luglio ’70, dove erano morte sette persone. E sei basco, sei uno di loro. Gira voce che Arconada sia vittime di minacce. Ma si dice anche che la scelta dei calzettoni bianchi sia invece legata alla scaramanzia: con quelli addosso nel club, Luis si sente invincibile. Non lo sarà: in quel Mondiale, che noi italiani ricordiamo bene, la Spagna prende 5 gol ed esce prima della semifinale, contro la Germania Ovest. Ad Arconada viene rinfacciato di tutto. Quella che sembra destinata ad essere una leyenda del calcio spagnolo è accusata di prendere troppi soldi, gli si rinfacciano le centinaia di milioni di pesetas che si intasca ogni anni per fare la pubblicità.

Arconada in una delle sue migliori partite di sempre, agli Europei del 1984 contro la Danimarca. Ovviamente ha i calzettoni bianchi.

Due anni, ci sono gli Europei in Francia, per riscattarsi. La Spagna ci è arrivata superando nelle qualificazioni l’Olanda, con un discusso 12-1 su Malta che le ha permesso di passare per la differenza reti (ne servivano 11 di scarto…). Non è chissà quale Seleccion. Ci sono Goicoetxea e Camacho dietro a fare da buttafuori ad Arconada, c’è Santillana davanti, ma per il resto è difficile pensare possa risultato: al varco tutti aspettano i tedeschi e i francesi, l’Italia nemmeno si è qualificata, sicché. Dopo i primi due pareggi con Romania e Portogallo, arriva la vendetta: 1-0 alla Germania Ovest e semifinale. Contro la Daminarca di Laudrup finisce ai rigori, una partita rimasta nella storia spagnola: quella sera, a Lione, Arconada parò di tutto. Ed anche in occasione del vantaggio danese, ne aveva fatta una delle sue: un volo ad allungarsi impossibile. C’è un’immagine, di quella sera che in Spagna ricordano come “La noche de San Juan” più famosa del futbol: in tv, mentre la telecronaca annuncia “Vamos a los penaltis”, Arconada guarda dritto verso, la mascella serrata, lo sguardo fiero. Para un rigore a Laudruo, ma l’arbitro lo fa ribattere e ammonosice Luis, che contiene la rabbia e non si fa smontare: saranno i danesi a crollare.

Il giorno della finale, naturalmente contro la Francia di Michel Platini, è il 27 giugno 1984. Il giorno prima, Luis ha compiuto 30 anni. Ancora non sa che quel giorno per lui sarà un bivio. Poco dopo l’inizio del secondo tempo c’è una punizione per la Francia, dal limite dell’area. Sulla palla c’è il numero 10, che non tira a foglia morta, come spesso gli capita. Il suo è un tiro che aggira la barriera alla sinistra di Arconada. Che quella palla dovrebbe bloccarla a terra, senza grossi problemi. Invece, quella palla gli scivola sotto la pancia e si infila in rete. Quasi come se Luis la schiacciasse, quella palla: in effetti la schiaccia verso il terreno e schizza via, verso la linea, verso il gol. “Aver segnato un gol come quello è stato un peccato”, dirà Platini anni dopo, commentandolo. “Un peccato per lui, mentre io avrei preferito segnare un gol nel quale il portiere non avrebbe potuto far nulla”.

“Aver segnato un gol come quello è stato un peccato. Un peccato per lui, mentre io avrei preferito segnare un gol nel quale il portiere non avrebbe potuto far nulla”


Michel Platini
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Eccolo, il bivio di Arconada. All’estero si parlerà di quella papera come del “Gol di Arconada”. Lui si rifugia in quella che è la sua famiglia, la Real Sociedad, per la quale continua a giocare e a difendere il posto. Nella prima giornata della Liga 1985/86 si infortuna gravemente. Perderà la maglia numero uno della nazionale (dove verrà sostituito pensa un po’ da un altro basco, Andoni Zubizarreta), ma non quella della Real: per tutto l’anno giocherà bene al suo posto Agustín Elduayen, che la stagione successiva firmerà per l’Atletico Madrid: Luis è pronto a riprendere il proprio posto, in tempo per vincere un’altra Coppa del re, ovviamente da protagonista.

Arconada si è ritirato nel 1989. In Spagna, chi è arrivato dopo di lui si è dovuto confrontare con il suo carisma: succede, dopo tre trofei Zamora vinti di seguito, per dire. Nel 2008, la Spagna vince gli Europei in finale contro la Germania. Iker Casillas è il portiere titolare di quella nazionale, cresciuto ovviamente nel suo mito. Assieme a Iker, i compagni sono in fila per ricevere la medaglia dei vincitori da Michel Platini, nel frattempo diventato numero uno dell’Uefa. A un certo punto, il francese rivede quella maglia verde, che riconoscerebbe tra mille: alza lo sguardo, convinto ci sia per un attimo Arconada. Non può essere lui, ovviamente: chi la indossa è Andres Palop, portiere del Siviglia, come Casillas cresciuto nel mito del Pulpo. E così, la Spagna si riprese quell’Europeo da chi in qualche modo glielo aveva sottratto. Anche così sopravvivono i grandi miti.

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