La Francia vincerà Euro 2016. Non si tratta di un pronostico sulla nazionale che tra un mese solleverà il trofeo di campione d’Europa. Parliamo di Francia come Paese che, da organizzatore, erediterà quello che possiamo definire il primo vero Europeo di calcio sostenibile a livello economico. Se si va ad analizzare l’organizzazione a livello di spese per le infrastrutture e l’eredità che lasceranno alla Francia, si capisce come finalmente la Uefa (e si spera un giorno anche la Fifa, visti i risultati di Brasile 2014) abbia compreso come evitare di spolpare fino all’osso il paese ospitante di un torneo, lasciandogli anzi la possibilità di sfruttarne l’organizzazione sul lungo periodo.
Il primo merito è proprio del governo europeo del calcio, che in tempi di crisi economica ha invertito il proprio trend di assegnazione del torneo. La scorsa edizione degli Europei è stata affidata a due Paesi nuovi nel panorama calcistico continentale come Polonia e Ucraina: a tutti è parso chiaro come Michel Platini, ex numero uno Uefa, avesse avvallato tale scelta per allargare il proprio bacino elettorale verso Est. L’organizzazione ha avuto grossi ritardi, soprattutto nella parte ucraina, piegata dal crollo del 30% della propria economia nel 2009: se non fosse stato per l’intervento di alcuni oligarchi locali, che hanno messo mano al portafogli per assicurare i fondi necessari al completamento di alcune infrastrutture, a quest’ora avremmo avuto un Europeo “dimezzato” ospitato solo dalla Polonia, la cui economia si è dimostrata più in crescita di quella di Kiev ma il cui sistema calcistico, seppur con dei miglioramenti, non ha fatto “il botto” né a livello di club che di Nazionale.
Il problema più grosso di sostenibilità post-torneo in realtà si è verificato più spesso con i Mondiali di calcio targati Fifa, soprattutto con gli ultimi due: sia Sudafrica che Brasile, due economie considerate per anni in crescita, si sono ritrovate con infrastrutture grandi, spesso semivuote già durante il torneo e con ampi costi di manutenzione. Non è un caso che il nuovo stadio di Brasilia, un capolavoro di design e di sostenibilità energetica costato 550 milioni di dollari, sia stato trasformato in un grande parcheggio. Altri impianti hanno subìto una fine ingloriosa: lo stadio Das Dunas di Natal ospita matrimoni e feste per bambini, mentre la bellissima Arena Corinthians di San Paolo è stato inaugurato incompleto e il club non ha i soldi per finire i lavori. Ma il problema riguarda anche altri Mondiali più indietro nel tempo: il Giappone si ritrova con alcune prefetture in debito d’ossigeno, per mantenere stadi giganteschi in un Paese dove il calcio è sì molto seguito, ma non è mai salito al rango di sport nazionale. Per non parlare del caso a noi più vicino, ovvero la pesante eredità che ci ha lasciato Italia ’90. Impianti già vecchi dopo un anno, scomodi, con le piste d’atletica incorporate per essere riutilizzati. Ma anche infrastrutture mai completate o costruite male, come la stazione di Vigna Clara a Roma: 90 miliardi di lire per funzionare solo otto giorni.
Il problema più grosso di sostenibilità post-torneo si è verificato più spesso con i Mondiali di calcio targati Fifa, soprattutto con gli ultimi due: sia Sudafrica che Brasile, due economie considerate per anni in crescita, si sono ritrovate con infrastrutture grandi, spesso semivuote già durante il torneo e con ampi costi di manutenzione.
Per evitare nuovi tracolli, la Uefa ha seguito l’esempio della Fifa per Germania 2006: affidare la competizione ad un mercato tradizionale, dotato di impianti da ristrutturare e solo in alcuni casi da costruire ex novo, per rafforzarlo. In fondo sono pur sempre i grandi club (e quindi i grandi brand) legati alle leghe europee top a trainare tutto il mercato pallonaro europeo. L’idea ha funzionato: unendo infrastrutture moderne e non eccessivamente grandi alla predisposizione dei club tedeschi di stabilizzarsi con i propri bilanci e alla voglia di lega e federcalcio di supportare il tutto, oggi la Bundesliga è uno dei massimi campionati più forti a livello economico e di affezione del pubblico. Per fare un esempio; nel 2014 l’affluenza media negli stadi tedeschi è stata di 43.624 spettatori (la più alta in Europa), mentre il fatturato totale nello stesso anno ha superato per la prima volta i 2 miliardi di euro.
E così, ecco l’idea di affidare Euro 2016 alla Francia: un Paese di tradizione calcistica, ma dove . Si sarebbe potuto farlo organizzare all’Italia, ma il nostro Paese, pur essendo di grande tradizione, non aveva la spinta sufficiente per fare sistema nella questione impianti. Spieghiamoci meglio. La Francia ha speso per i propri stadi 1,7 miliardi di euro, di cui il 62% di investimenti privati e il 32% pubblici, per averne quattro nuovi e cinque ristrutturati. Il dossier presentato dall’Italia prevedeva in realtà una cifra inferiore, ma che sarebbe inevitabilmente lievitata: dei 10 stadi scelti dal nostro Paese, solo quelli di Torino e Udine sono stati completati grazie ad iniziative singole, ovvero dei club di appartenenza: la Juventus si è mossa d esempio ben prima della “Legge sugli stadi”. In Francia, invece, la modernità degli impianti è incentivata dalla lega calcistica nazionale, la LFP, che premia gli stadi migliori includendoli in una classifica a punti che costituisce il 19% della torta dei diritti tv che le squadre di Ligue 1 si spartiscono ogni anno. Secondo i criteri stabiliti per le licenze nazionali concesse alle squadre, ad esempio, l’assenza di una pista d’atletica nello stadio porta 250 punti al club, l’uso dell’erba sintetica 200 punti, l’anno di costruzione (o ristrutturazione) e la grandezza fino a 350 punti e così via.
Un sistema che dunque incentiva i club a dotarsi di stadi nuovi o ristrutturati, non solo per ospitare un grande torneo, ma anche per contribuire al miglioramento dei bilanci dei club che ci giocano. L’ultimo fatturato netto della Ligue 1 è stato di 1,42 miliardi di euro. Tra la prima in classifica (il Psg) e la seconda (il Monaco) la differenza è già notevole: 483 milioni di euro contro 117 milioni. Lo squilibrio tra il club in mano agli sceicchi e il resto di Francia è dunque molto ampio e con l’assenza di ricchi investitori, puntare sui ricavi da matchday è già un inizio per limare la distanza: in Germania gli introiti da stadio valgono il 20% dei fatturati totali, oggi in Francia la metà. Non è un caso che due impianti nuovi, l’Allianz Riviera di Nizza e il Pierre Mauroy di Lille, siano stati costruiti indipendentemente dal progetto Euro 2016. E che l’apporto di nove impianti su dieci – escluso lo Stade de France, che non ospita nessun club -, tutti funzionanti compresi quelli nuovi (ci sono anche quello di Bordeaux e Lione) secondo l’Annual Review of football finance di Deloitte hanno già inciso sul fatturato totale della Ligue 1 con un +15% sui ricavi da botteghino.
L’impatto economico di Euro 2016 dipenderà molto dagli impianti. Secondo uno studio del Centre de Droit et d’Economie du Sport, a fronte di un effetto generale di 1,2 miliardi di euro sulla Francia, 593 milioni dipenderanno dagli spettatori. Questo perché l’organizzazione punterà su una hospitality di alto livello, per offrire comfort a tutti i tifosi. Gli impianti non saranno più affetti dal gigantismo visto ai Mondiali passati: saranno più piccoli, gestibili a livello di spesa e multifunzionali. Seguendo l’esempio dello Stade de France, altri impianti come quelli di Tolosa e Lille ospitano gare di rugby e basket. Ecco quindi che la sostenibilità di Euro 2016 passa dagli impianti, che garantiranno anche 5mila posti di lavoro dopo la fine del torneo. Ma non solo. La Uefa e la federcalcio (FFF) francese faranno la propria parte: Nyon elargirà 20 milioni di euro alle città ospitanti, oltre ad altri 15 alla FFF per il progetto “Horizon Bleu” per lo sviluppo del calcio amatoriale francese.