Euro 2016«Basta tifare contro l’Italia: la passione popolare è quella che ci unisce»

«Mi emoziono sempre. Anche quando fatico a riconoscermi nel calcio, che sempre di più perde la capacità di sorridere» dice Bruno Pizzul, che è stato per anni voce ufficiale della Nazionale italiana. E che a Linkiesta racconta il calcio di una volta, quello di oggi e quella volta che Beppe Viola...

«Mi emoziono sempre. Anche quando fatico a riconoscermi nel calcio, che sempre di più perde la capacità di sorridere». Bruno Pizzul, la voce autorevole e amica del calcio italiano, è ancora un sentimentale. Anche se la sua telecronaca non è mai stata emotiva, aedica. Anche se ha cominciato a fare il giornalista sportivo per caso, “trascinato a fare il concorso in RAI”. Gianni Brera diceva che amare il calcio non significa capirlo: il corollario inconfutabile per molte generazioni di italiani, millennial compresi, è che amare Bruno Pizzul non significa necessariamente amare il calcio. Un sentimento popolare lega a lui amanti e non amanti del pallone, conoscitori e inesperti, tifosi e detrattori.

Si ricorda quando Marco Travaglio, all’ultimo mondiale, disse che avrebbe tifato Germania?

In Italia, la passione calcistica si manifesta soprattutto nel “tifo contro”. Quando gioca la Nazionale, spuntano uscite discutibili di liberi pensatori come Travaglio, fermo restando che quando i risultati arrivano, sono tutti pronti a salire sul carro dei vincitori.

Ma lui voleva provocare, sottolineare che siamo qualunquisti capaci di ricordarsi di essere Nazione solo davanti a una partita.

Penso sia abbastanza difficile tifare per la Nazionale di un altro Paese usando come giustificazione il fatto che l’Italia ha una coscienza collettiva ancora da costruire. Questa, peraltro, è una vecchia storia. Invece, è giusto e doveroso tenere per la nostra Italia: si tratta di un momento che unifica la passione popolare nel tifo per la Nazionale. I miei nonni hanno continuato a tifare Austria fino alla fine perché quando nacquero erano austriaci. Dopo la guerra diventarono italiani, ma la loro Nazionale rimase la stessa.

Il calcio la emoziona ancora?

Sempre, sebbene io fatichi a riconoscermi in quello contemporaneo.

Perché?

Trovo che abbia perso la capacità di sorridere. D’altronde, essendo un fenomeno tipicamente sociale, risente delle storture e delle negatività che segnano la società in cui si manifesta. Il calcio è diventato più cattivo, arrabbiato e assatanato, alla stregua del nostro presente. Questo, tuttavia, non deve diventare un comodo alibi: è importante che tutte le componenti del calcio si impegnino per restituirlo alla sua originaria natura di momento di aggregazione, ludico e gioioso, in cui le contrapposizioni siano portate avanti sul piano dell’ironia e non della violenza.

In Italia, la passione calcistica si manifesta soprattutto nel “tifo contro”. Quando gioca la Nazionale, spuntano uscite discutibili di liberi pensatori come Travaglio, fermo restando che quando i risultati arrivano, sono tutti pronti a salire sul carro dei vincitori.

Lei è cresciuto negli anni in cui a far sorridere del calcio c’erano persone come Beppe Viola.

Un personaggio straordinario, gli abbiamo voluto tutti molto bene. Per me è stato un fratello più che un collega. E frequentarlo era sempre un po’ pericoloso.

Addirittura pericoloso?

Il mio primo incarico in Rai fu la telecronaca di uno spareggio di Coppa Italia. Bologna – Juventus, si giocava a Como, alle tre del pomeriggio. Stavo per mettermi in macchina alle nove e mezza del mattino, quando incontrai Beppe: mi disse che ero troppo in anticipo e che mi avrebbe accompagnato lui. Ce la prendemmo comoda. Mi portò a pranzo fuori. Ovviamente, arrivai con un quarto d’ora di ritardo. Non fu il miglior esordio possibile, ma non venni rimproverato: quando c’era di mezzo Viola, nessuno fiatava.

E poi è diventato grande anche lei. Un divo, quasi.

Ero solo uno dei pochi. La notorietà era inevitabile che ci investisse perché, a quei tempi, eravamo praticamente i soli a raccontare il calcio, quindi dovevamo andar bene per forza, prendere o lasciare. In più, quando venivano trasmesse le prime partite in tv, tutto era avvolto in un senso miracolistico. C’erano meno partite, quindi ciascuna di esse veniva vissuta con un’emozione del tutto particolare. Adesso c’è una sovraesposizione mediatica che non credo giovi molto al calcio. Le confesso, però, che io ancora mi impressiono quando cambio canale e vedo i ragazzi in campo. Mi sembra incredibile.

Guarda le partite in tv?

In realtà, le rare volte che le seguo da casa, preferisco seguirle per radio: mi sento più coinvolto e compartecipe. La radio stuzzica la fantasia, la voglia di ricostruire un ambiente. La tv è un mezzo straordinario, ma l’immagine banalizza tutto, uccide il senso critico: dinnanzi ad essa si è disarmati.

Le piacciono i telecronisti di oggi? Sono molto diversi da lei. Guidano le emozioni degli spettatori, a volte le suscitano.

Sono tutti ragazzi molto bravi, ciascuno con una propria caratteristica. Ho solo la sensazione che, a volte, il quadro sia meno importante della cornice. Le tante parole, le successioni di immagini che non privilegiano i campi larghi ma i primi piani, il replay, le riprese delle bella ragazza, della luna piena, del labiale: tutto questo serve a fare dell’ottima televisione, ma tradisce il compito principale del commento e della ripresa televisiva.

Ovvero?

Far capire la partita. Il calcio è un gioco di squadra, bisognerebbe privilegiare di più l’aspetto collettivo, la manovra corale, mentre spesso il commento viene frantumato in una serie di giudizi e valutazioni che sono legate più a episodi singoli che alla partita.

Indipendentemente da come si segue, però, il calcio è diventato più prevedibile.

I tecnici privilegiano l’aspetto tattico: si cerca di bloccare le iniziative degli avversari più che di far valere le proprie virtù. Fino a che una delle due squadre non segna, allora, si vedono grandi ammucchiate a centrocampo, un gioco trasversale, fatto di batti e ribatti, privo di acuti.

Da cosa dipende, secondo lei?

Si dà eccessiva importanza al risultato. Il calcio bello, però, è quello nel quale si gioca con un pizzico di spregiudicatezza, con la voglia di mostrare a tutti quanto si è bravi. In Italia soprattutto siamo bloccati dall’angoscia del risultato e siamo privi della cultura della sconfitta, che non significa giocare per perdere, bensì essere preparati ad accettare che un altro, più bravo o magari solo più fortunato, possa vincere. Quando si perde siamo abituati al gioco delle colpe, sempre addossate all’arbitro, alla protervia degli avversari, agli imbrogli.

Il mio primo incarico in Rai fu la telecronaca di uno spareggio di Coppa Italia. Bologna – Juventus, si giocava a Como, alle tre del pomeriggio. Stavo per mettermi in macchina alle nove e mezza del mattino, quando incontrai Beppe: mi disse che ero troppo in anticipo e che mi avrebbe accompagnato lui. Ce la prendemmo comoda. Mi portò a pranzo fuori. Ovviamente, arrivai con un quarto d’ora di ritardo. Non fu il miglior esordio possibile, ma non venni rimproverato: quando c’era di mezzo Viola, nessuno fiatava.

Sua moglie le fa compagnia, quando segue le partite da casa?

No, mai.

Non è appassionata?

È un argomento che non la tocca minimamente.

Delle giornaliste sportive cosa pensa?

Sono tutte assai brave e competenti. Credo facciano una fatica del diavolo ad accettare il maschilismo che pervade ancora il giornalismo sportivo, soprattutto in ambito calcistico. Noi maschi dovremmo sfrondare questa pessima abitudine che abbiamo di dire che le donne devono occuparsi d’altro.

E del calcio femminile?

È un bellissimo sport. Bisogna smettere di rapportarlo a quello maschile: sono due cose assai diverse, con pari dignità e godibilità.

Sa cucinare?

No, nulla. Sono infastidito da tutto ciò che è eccessivo: così come mi dà fastidio l’eccesso di calcio proposto in tv, non tollero che non si possa accenderla senza che ci sia un qualche cuoco che ci dice come dobbiamo far da mangiare. Sono goloso, ma non voglio che nessuno venga a inculcarmi a viva forza come si cucina o come si mangia.

Il suo libro preferito?

Sono molto legato alla letteratura russa classica. Mi piace leggere e sono un lettore molto disordinato, nel senso che leggo tutto ciò che mi capita, ma i grandi russi sono quelli che mi attanagliano.

Com’è l’Italia di questo Europeo?

Una formazione dove non ci sono giocatori che spiccano per capacità tecnica. Cercheremo di arrabattarci alla meglio, renderemo la vita dura agli avversari sul piano tattico: l’Italia è nota per non possedere fenomeni, ma anche per la capacità di ingarbugliare le acque, così da far giocare male gli altri.

Ventura, il ct che succederà a Conte, le piace? Non è esattamente un vincente.

Ha sempre fatto molto bene. Che non sia un vincente non vuol dire nulla: è un maestro di calcio, ha dato a tutte le sue squadre una fisionomia e un rendimento adeguati. Gli allenatori bravi sono quelli che sbagliano di meno, non quelli che inventano qualcosa.

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