Si chiamano Flavia Pennetta, Roberta Vinci, Federica Pellegrini, Elisa Di Francisca. Dominano i maggiori tornei internazionali di tennis, scalano le vette del nuoto e della scherma. Ma nessuna di loro è una sportiva professionista. Nell’anno del signore 2016, nel Paese che vorrebbe ospitare le Olimpiadi a Roma, le donne sportive in Italia possono essere solo dilettanti. Nonostante gli allenamenti quotidiani, le gare internazionali, le medaglie, le pubblicità, le copertine dei giornali e gli stipendi da urlo di alcune, formalmente praticano tutte sport per diletto.
La ragione di questo paradosso va trovata in una legge vecchia, la numero 91 del 1981, scritta per regolare i rapporti di lavoro del calcio ma poi estesa a tutti gli sport, che lascia alle federazioni la possibilità di scegliere se aprire le porte al professionismo o no sulla base delle direttive stabilite dal Coni. In 35 anni il Coni non ha mai precisato in maniera puntuale queste direttive, e le federazioni hanno fatto melina. Così nessuna disciplina sportiva femminile è qualificata come professionistica, anche laddove il professionismo esiste. Le uniche federazioni sportive che oggi prevedono il professionismo in Italia, ossia calcio, golf, pallacanestro e ciclismo, escludono le donne riservando questo status solo ai colleghi uomini.
Essere professionisti o dilettanti nello sport non è solo una questione linguistica. I professionisti firmano contratti di lavoro con le società, hanno una tutela sanitaria, una assicurazione contro i rischi e regolari versamenti contributivi. I dilettanti non hanno nulla di tutto questo. Compresa – per le donne – la tutela alla maternità. Anche perché non tutte le sportive godono di sponsor e vittorie milionare. Anzi, il calcolo è che in media i compensi delle donne dilettanti sono il 30% più bassi rispetto a quelli degli uomini. Basti pensare che nel calcio femminile, anche quello di serie A, che non gode nemmeno dei proventi dei diritti tv come abbiamo già raccontato, non si superano mai i 1.500 euro circa al mese. Ed essendo dilettanti, i club non sono obbligati a depositare le scritture private firmate dalle atlete, aprendo anche la strada ai pagamenti in nero.
«Quando firmi la scrittura privata, ti dicono: “Mi raccomando, due cose non devi fare: andare in galera e restare incinta”»
CLAUSOLE ANTI-MATERNITÀ
«Ma oltre ai compensi, il problema grosso è la mancanza dei diritti elementari che dovrebbe avere qualunque persona che di fatto fa un lavoro», dice Luisa Rizzitelli, ex pallavolista e presidente di Assist, Associazione nazionale atlete. «Perché se ti alleni ogni giorno e indossi sempre quella maglia di lavoro si tratta». Il grande assente è prima di tutto la tutela previdenziale. Se hai un contratto versi i contributi. Se sei dilettante hai solo una scrittura privata e zero contributi. Così ci sono i casi limite per cui una canoista come Josefa Idem, ex ministra per le Pari opportunità e oggi senatrice, che per l’Italia ha gareggiato in quattro edizioni dei Giochi olimpici (due per la Germania), non ha mai versato un contributo come sportiva. Perché non ha mai avuto un contratto di lavoro.
Senza dimenticare la tutela infortunistica. «Una ciclista che faceva agonismo è rimasta paralizzata dal collo in giù dopo una caduta», racconta Luisa Rizzitelli. «Ma per lei è rimasto solo un fatto personale, non un infortunio sul lavoro». Fino ad arrivare alla maternità, tasto dolente nel mondo del lavoro e soprattutto nello sport. «Se giochi per un club e percepisci denaro, nel momento in cui sei incinta la società ti manda a casa», dice Luisa Rizzitelli. Alcune società lo scrivono anche nelle scritture private. «Si chiamano “clausole antimaternità”: se sei incinta vai a casa. E non prendi un euro. Io giocavo a pallavolo e quelle clausole le ho firmate», racconta Rizzitelli.
Il Coni ha emanato delle direttive inerenti alla tutela della maternità, prevedendo anche la conservazione del punteggio maturato nelle classifiche. Ma non tutte le federazioni le hanno recepite. E così ci troviamo davanti a casi come quello di Nikoleta Stefanova, ad esempio, volto femminile del tennistavolo italiano, che non è stata convocata per il torneo di qualificazione a Rio 2016 per essersi assentata dai ritiri a causa della maternità. Eppure, dopo la nascita della sua Camilla, è tornata e ha vinto l’undicesimo titolo nazionale. Il suo caso è finito persino alla Camera dei deputati con una interrogazione della deputata Pd Michela Marzano. Ma intanto Nikoleta ha perso l’aereo per il Brasile.
E non succede solo ai livelli più bassi. Le storie che ogni settimana vengono segnalate all’associazione Assist arrivano anche dalla serie A1 di basket, dove i colleghi uomini sono professionisti. «Quando firmi la scrittura privata, ti dicono: “Mi raccomando, due cose non devi fare: andare in galera e restare incinta”», raccontano le sportive. «È vergognoso che non ci si metta a un tavolo per trovare una soluzione e scivolare verso la legalità», dice Rizzitelli. «Non si può più tollerare che un’atleta che dà lustro all’Italia sia senza tutele».
L’unico modo che hanno i dilettanti oggi, donne e uomini, per tutelarsi è entrare a far parte delle forze armate o di un corpo di polizia per garantirsi delle tutele e un lavoro una volta conclusa la carriera. Quello italiano è uno degli sport più militarizzati al mondo
SPORTIVI E SPORTIVE DI STATO
L’unico modo che hanno i dilettanti oggi, donne e uomini, per tutelarsi è entrare a far parte delle forze armate o di un corpo di polizia per garantirsi delle tutele e un lavoro una volta conclusa la carriera. «Si stanno affiliando tutti gli atleti di massimo livello che temono di fare la vita dei precari. In questo modo percepiscono uno stipendio statale e uno dalla società», dice Rizzitelli. «Questa è una distorsione nell’utilizzo dei fondi pubblici». Nel 2012, il Coni ha ricevuto 408 milioni circa dal ministero del Tesoro, di cui 246 sono stati versati tra federazioni, enti di promozione sportiva e forze armate.
Quello italiano è uno degli sport più militarizzati al mondo. Alle Olimpiadi di Londra del 2012 su 290 atleti, 194 erano anche dipendenti statali: 29 arrivavano dall’Aeronautica militare, nove dalla Marina, 25 dall’Esercito, 31 dalla Polizia, 22 dai Carabinieri, 18 dalla Polizia penitenziaria, 18 dalla Guardia forestale, 41 dalla Guardia di finanza, uno dai Vigili del fuoco. Tania Cagnotto, per citarne una, è anche appuntato scelto della Guardia di finanza. Che poi non abbia mai fatto un blitz antievasione, poco importa. I diversi corpi di tanto in tanto pubblicano un bando con un certo numero di posti e le federazioni candidano i migliori o le migliori alle quali garantire una carriera. L’aeronautica ne ha presentato uno che scade a ottobre 2016, ad esempio, per il reclutamento di 12 atleti.
Così si diventa brigadiere, appuntato e finanziere anche per garantirsi un futuro dopo lo sport. Al di là di quelle e quegli atleti che poi vivono di sponsor o fanno da testimonial negli spot, una volta che si appendono tacchetti, racchette e costumi al chiodo o si diventa dipendenti pubblici o si aspira a una carriera da allenatori e allenatrici (a meno che non si cambia vita completamente). Il presidente dell’Inps Tito Boeri, in occasione della firma di un protocollo di intesa con Lega Pro e Agenzia delle entrate, ha chiesto di introdurre forme previdenziali obbligatorie per tutti gli sportivi. «Faccio l’esempio della pallacanestro e della pallavolo, quindi associazioni molto numerose dove non esistono forme di contribuzione obbligatoria: spero che l’esempio della Lega Pro possa servire anche per gli sportivi delle altre discipline», ha detto.
La legge 86 del 15 aprile 2003 ha istituito il fondo “Giulio Onesti”, dal nome del primo presidente del Coni. Ogni anno viene assegnato un vitalizio che si aggira tra i 7 e i 17mila euro a un massimo di cinque tra gli “sportivi italiani che nel corso della loro carriera agonistica hanno onorato la Patria, anche conseguendo un titolo di rilevanza internazionale in ambito dilettantistico o professionistico […] qualora sia comprovato che versino in condizioni di grave disagio economico”. Dal 2003 su 29 beneficiari solo due donne compaiono hanno ricevuto il piccolo aiuto: la ex cestista Nidia Pausich, e la ex campionessa del mondo Bina Colomba Guiducci.
LE PROPOSTE DI LEGGE DIMENTICATE
Le proposte per una modifica della legge 81 che elimini le discriminazioni di genere in realtà esistono. Anzi, più di una parlamentare ci ha provato senza mai centrare l’obiettivo. Nel 2011, la ex fondista Manuela Di Centa, allora deputata del Pdl, tentò di creare una cassa previdenziale per garantire almeno la maternità alle sportive. Nel 2014, la deputata del Pd Laura Coccia, ex atleta paralimpica, presentò una proposta di modifica della legge 81, ma non se ne fece niente. Finché all’inizio del 2016 la sua proposta è poi abbinata alla proposta di legge Attaguile (dal nome dell’onorevole Angelo Attaguile). In Senato, invece, la vicepresidente Valeria Fedeli nel 2015 ha presentato il ddl AS 1996 che prevede l’inserimento della dicitura “atlete” nella definizione dei professionisti e il divieto di discriminazione da parte delle Federazioni sportive nazionali. Il ddl è stato assegnato nella commissione Istruzione pubblica e beni culturali del Senato, ma da allora non si è mosso più nulla. «Facciamo fatica a incardinarlo», dice Valeria Fedeli. «La Commissione si era data altre priorità, ma è arrivato il momento di portare avanti questa operazione». E sulla scia della proposta Fedeli, ad aprile anche la parlamentare di Possibile Beatrice Brignone ha presentato una proposta di legge simile.
Fa comodo scappare dal professionismo. Ma qui si tratta di diritti. Avere un contratto e pagare i contributi per chi fa sport per lavoro non è una questione di uomini o donne. Deve valere per tutti e la scelta non può essere lasciata in mano alle società
IL CONI: RIFORMARE TUTTA LA LEGGE, NON SOLO PER LE DONNE
Sulla base di quello che prevede la legge, oggi garantire un contratto per tutti sarebbe troppo costoso per le società, confessano dal Coni. «Non è solo un problema di genere», dicono. «C’è anche un problema di sostanza. Il quadro normativo non è più adeguato e va modificato. Gli obblighi fiscali che gravano sulle società sono troppo alti». Così le leghe fanno pressioni sulle federazioni e le discipline finiscono per sottrarsi di volta in volta al professionismo. Come è già accaduto per motociclismo e pugilistica. Fino a qualche anno fa le federazioni che riconoscevano i professionisti erano sei: il motociclismo ha chiuso il settore nel 2011, e la pugilistica nel dicembre 2013.
E anche il ciclismo si trova in difficoltà, tanto che nell’estate del 2014 il presidente della Lega ciclismo Vincenzo Scotti scrisse una lettera al presidente del Coni Giovanni Malagò, chiedendo una revisione della legge del 1981 e denunciando «la mancanza di competitività economica e di conseguenza sportiva» delle società. «Le risorse che una società italiana è costretta a impiegare per il suo normale funzionamento, per la fiscalità e gli altri oneri previsti costituiscono risorse che gli altri club, non sottoposti alla legge italiana, possono invece mettere a frutto nella ricerca e sviluppo di giovani talenti, nel potenziamento delle strutture e nella professionalizzazione del personale. Per questo il loro numero è meno delle dita di una mano» e il rischio è che «in brevissimo tempo non avremo più società italiane affiliate alla lega del ciclismo professionistico», si legge.
Che si debba modificare la legge sul professionismo, in realtà, «si dice ormai da quattro legislature», spiega Valeria Fedeli. «E spesso è l’argomentazione portata avanti per impedire che ci siano modifiche che riguardano le donne». Il Coni stesso tre anni fa aveva promosso una proposta di legge partorita con un gruppo di lavoro che raccoglieva tutti gli sport. Ma poi non se ne seppe più nulla. «Fa comodo scappare dal professionismo», dice Luisa Rizzitelli. «Ma qui si tratta di diritti. Avere un contratto e pagare i contributi per chi fa sport per lavoro non è una questione di uomini o donne. Deve valere per tutti e la scelta non può essere lasciata in mano alle società».