«C’è una retorica ridicola sulle start up: tutti wannabe milionari, tutti glamour, tutti speaker da Ted Talk. Fare una start up è una cosa seria. Noi eravamo in tre, ora siamo in trenta. Il tempo lo perdo a lavorare, non a raccontare il mio lavoro». Se fosse un cocktail, Carlo Moretti sarebbe il mix perfetto tra la creatività out of the box della Silicon Valley e il pragmatismo nordestino. Vicentino doc, la sua è una storia di successo senza storytelling, in cui i fallimenti sono chiamati col loro nome e dove l’idilliaco e meritocratico mondo degli startupper italiani diventa un saloon fatto di «truffe e raggiri», di un «moral divide» che rende difficile, se non impossibile, diventare l’America.
Oggi Moretti è il ceo di Rawfish, un’agenzia digitale che sviluppa soluzioni mobile per aziende e startup. All’inizio però è stata davvero dura: «Nasciamo nel 2012 come start up di prodotto, vincendo una business plan competition in Veneto: 50mila euro a fondo perduto su un app per riconoscere e predire i colpi di sonno alla guida – racconta Moretti – La app era perfetta in laboratorio, ma messa su strada è stata un disastro totale. Abbiamo finito i soldi ancora prima di andare sul mercato».
Era il 2013 e per Moretti e i suoi soci sembrava esserci solo la strada che li riportava dritti alle scrivanie che avevano lasciato per inseguire il sogno di diventare startupper. Nessuno aveva voglia di tornare in ufficio, però. La via di fuga è un’idea di tre parole: tech for equity. In altre parole, offrire tecnologie in cambio di azioni della startup con cui si collabora. L’idea, stavolta, sembra essere vincente, ma le cose continuano ad andare male. Finiscono, infatti, tra i sessanta startupper, sviluppatori e finanziatori che dicono essere state truffate da Max Uggeri alias il Reverendo, una specie di guru del mondo startupper: «È un miracolo che quella storia non ci abbia ammazzati – racconta Moretti -. Non è una novità, del resto: nel mondo delle startup, truffe e raggiri sono all’ordine del giorno».
Quel che porta Moretti e soci negli Usa, però, sono motivazioni ben più quotidiane: «Negli Stati Uniti ti pagano a quindici giorni, in Italia a novanta – spiega -. Tra startupper ci si paga a vista, perché si sa il valore del denaro. Il corporate paga peggio e ci mette molto più tempo. E poi l’accesso al credito è completamente diverso: noi, in Italia, abbiamo dovuto fare tre ipoteche per avere ventimila euro. Così il cash flow non è sano. Tra l’Italia e l’estero c’è moral divide, non solo digital divide». Non è solo questo, ovviamente: «Gli Stati Uniti sono il regno della qualità – continua Moretti – là il limite è il cielo, e più le cose sono belle, più vengono pagate. C’è consapevolezza della complessità di un progetto digitale. Da noi in Italia non ci sono le competenze per comprenderla, invece».
Rawfish, così si chiama l’agenza di Moretti, in Italia ci torna dopo aver «assorbito tutto il mercato americano», con portfolio, referenze e competenze che la rendono molto più competitiva dei suoi concorrenti. Un po’ come un giocatore italiano che torna a giocare nel nostro campionato dopo aver sfondato nell’Nba. Rawfish si divide in due: una parte fa consulenza alle imprese “analogiche” medio-grandi, territoriali e non. Una parte, invece, rimane legata al mondo delle startup: «Siamo lavorando col biomedicale, con l’internet delle cose, con alcune aziende medio-grandi come Mediaset o Shuko, o Carel. Soprattutto, mi piace legarmi alle imprese vicentine, quelle del mio territorio, perché con loro puoi fare la differenza».
Non è semplice convincere un imprenditore vicentino a puntare sul digitale, anche se proporglielo è un suo conterraneo: «L’imprenditore veneto le cose le apprezza solo quando capisce che le apprezza il mercato: è come i pusher con le nuove droghe» scherza Moretti. Per convincerli, Rawfish gli regala le sue idee: «È il nostro trucco: affascinarli, dare loro simulazioni di design frutto della nostra fantasia per fargli venire voglia di vederle realizzate».
Il grande amore di Moretti e di Rawfish sono le startup. Ed è con loro che è nato il progetto più folle di tutti: si chiama Bali Program e, concretamente, offre alle realtà più innovative con cui Rawfish decide di lavorare un soggiorno di 30 giorni in Indonesia con viaggio, vitto e alloggio a spese dell’agenzia: «A Bali c’è un team completamente dedicato a loro che comprende un designer e tre developer – spiega Moretti -, tutto dedicato al progetto. Si parla del progetto da mattina a sera. Portiamo lì a lavorare i nostri sviluppatori che sono contentissimi. Gli orari di lavoro non esistono, là: la nostra unica religione è l’on time».
Non è solo un’idea originale, ma è figlia di una metodologia di lavoro ben precisa: «Se io porto uno startupper qui in ufficio è un disastro. – spiega -. Lo startupper arriva col suo progetto della vita, magari senza aver mai lavorato prima. Pretende che lo sposi, che non ci siano sabati e domeniche, che le riunioni possano durare in eterno. Sono molto ansiosi: si parte da un’idea lean, dal minimum valuable project, ma subito ci infila dentro un mare di funzioni. Il processo d’arrivo in un prodotto finale è diverso: lunghissimo, costoso, ma più corretto. Serve implementare una feature alla volta, testarla molto bene, avere pazienza. È per questo che li portiamo a Bali. Per cambiargli la testa».
Quel che fatica a cambiare, perlomeno in Italia, è la politica: «Noi investiamo davvero sul capitale umano – spiega Moretti -: diamo stipendi alti, facciamo lavorare da casa chi ha i figli. Lo smart working è il nostro valore aggiunto. Eppure siamo costretti a inquadrare i nostri sviluppatori come metalmeccanici. Questo per far capire la distanza tra paese reale e chi fa le leggi». L’unico che si salva? Matteo Renzi: «Il jobs act ci aiutato molto a crescere. E se non altro, è il primo Presidente del Consiglio che ha ritenuto opportuno andare a vedere che succede in Silicon Valley».