“G” come Giudizio. Sgombriamo il campo senza tanti giri di parole: a nessuno piace questo termine. A nessuno piace essere giudicati, anche se a nostra volta lo facciamo, centinaia di volte nel corso di una giornata, talvolta persino inconsapevolmente.
Se una persona ci urta e non chiede scusa la giudichiamo maleducata, se non parla con chiarezza è una perditempo, se è in disaccordo con me non capisce nulla…e così via.
Noi verso gli altri, gli altri verso di noi. È umano, insuperabile, connaturato alle nostre prime esperienze infantili.
Il bisogno di essere amati
Siamo essere sociali. Viviamo e ci nutriamo fin dai primi momenti di vita del consenso di chi amiamo e vorremmo che ci amasse, grazie proprio alla nostra capacità di non tradire le sue aspettative. Questo crea un profondo senso di connessione, che si trasforma in disconnessione quando il consenso dell’altro viene meno, se vengo colto sul fatto che non sono così perfetto come credono: forse che smetteranno di amarmi?!
Ecco che si radica la paura del giudizio, alla quale, per difesa, a nostra volta facciamo ricorso nel relazionarci agli altri. Li ripaghiamo della stessa moneta. È il momento in cui da figli per esempio iniziamo a giudicare i nostri genitori, in cui si rompono gli equilibri, perché entrano in gioco due giudizi. Spesso diversi e in conflitto.
Che significato ha?
È singolare come la parola “giudizio” sia usata anche per esprimere profondità di analisi, quella che idealmente si dovrebbe acquisire con l’esperienza degli anni. Non a caso si parla del dente del giudizio, il dente che cresce nell’età della maturità. Il giudizio diventa sinonimo di prudenza, attenzione, ponderatezza. “Adelante Pedro, con juicio”, scriveva Manzoni. La nostra religione ci mette del suo e prende spunto dal timore del giudizio: ci presenteranno il conto il giorno del giudizio finale a cui tutti saremo esposti, nella dicotomia tra buoni e cattivi.
A quale apparterrò? Il protestantesimo non eliminò il giudizio, solo lo anticipò: qui e ora.
Pulizia linguistica
Tutto per dire che nelle relazioni quotidiane lavorative ci portiamo dietro e dentro questo fardello, tanto che per una sorta di pruderie linguistica, come non esistono “incapacità”, ma “aree di miglioramento”, il “ feedback” ha sostituito la parola “giudizio”, quel riscontro che non essendo un giudizio non ci dovrebbe fare male.
Il feedback non è un giudizio e lo diciamo anche noi nelle nostre aule, ma a furia di ripeterlo abbiamo concorso a demonizzare una parola caricandola di una negatività, di cui il suo etimo non ha traccia.
L’etimologia della parola “giudicare” è da ricondurre al latino judĭcare, judex = giudice, che a sua volta viene dall’unione di ius + decs (dicere) cioè “colui che dice”, che si pronuncia sul diritto. Temo faccia male anche un feedback, niente da fare: non ci piace che niente e nessuno ci aiuti a leggerci da un’altra prospettiva. Vediamo di capire allora come attutire il dolore del giudizio. Forse potremmo partire dall’idea che quello che conta non è il giudizio in sé, ma il modo. “Est modus in rebus”, recita Orazio. C’è una misura nelle cose.
Le carte dei valori delle aziende
Il linguaggio si sa è una convenzione. Il suo utilizzo e la sua interpretazione non sono altro che i frutti di un accordo dei componenti di una medesima organizzazione, sia essa popolo-azienda-famiglia. Convenzionalmente, come che sia, oggi alla parola giudizio diamo un significato negativo. Alle carte dei valori che campeggiano fieramente nelle hall andrebbe appeso vicino anche un breve glossario. Una scritta del tipo “Qui dentro giudicare non vuol dire mazzulare le persone, ma restituire loro un commento circostanziato sui loro comportamenti, per arricchirne costantemente le competenze e permettere loro di crescere”. Una sorta di legenda, che concorrerebbe a ridurre molte incomprensioni e molte interferenze negli assetti relazionali. Il giudizio non è mai neutro per definizione. Non esiste un giudizio oggettivo è una contraddizione in termine.
Giudicare come atto di responsabilità
Riconquisterebbe un alveo di positività se solo non fosse abbinato all’idea dell’esercizio -magari spregiudicato- del potere su qualcuno o qualcosa. Letto in questa accezione certamente il giudizio non piace a nessuno. L’esempio viene dall’alto: chi guida ha il dovere di ricorrere a un giudizio fondato su fatti, circostanziato e indirizzato alla soluzione e non alla stigmatizzazione. Un giudizio espresso non come esercizio del potere ma come offerta di sostegno. Del pari, da parte nostra, nel riceverlo, eliminiamo i nostri naturali e istintivi filtri negativi: intanto accogliamolo, cercando di frenare le reazioni che suscita.
«Non è rompendo lo specchio che si diventa la più bella del reame! La realtà sarà sempre lì e sottraendoci al giudizio avremmo solo perso un’ occasione per crescere e per apprendere comunque qualcosa»
Sempre necessario?
Non è sempre necessario avere un’opinione e spingersi a formulare un giudizio. Sempre e su tutto. Come nel video che propongo in chiusura, accettiamo che forse qualche volta giudicare gli altri è solo una fuga da noi stessi. Permette di distogliere l’attenzione da chi meno di tutti vorremmo esporre: noi stessi, che per non sbagliare spostiamo il focus sugli altri.
Opportunità di valore
Potremmo leggerlo così: qualcuno si prende la briga di dedicarmi del tempo e di restituirmi la sua opinione. Sta poi a me e alla mia intelligenza capire se e come posso che uscirne arricchito. Naturalmente c’è modo e modo per esprimere il giudizio, e questo, insieme alle intenzioni, fa probabilmente la differenza. Spetta tuttavia anche a noi predisporci al meglio o tentare di farlo. Eliminare a nostra volta il filtro negativo.
Posto che in azienda il modus dovrebbe rientrare nell’alveo dell’educazione – a dire il vero non solo in azienda – , e il fine non dovrebbe essere altro che ispirato dal genuino convincimento in chi lo esprime, di dare un contributo a qualcuno, e in chi lo riceve, di avere una consulenza gratuita, dare e ricevere giudizi potrebbe essere una fonte di arricchimento per un’ azienda e per le sue persone.
La Regina di Biancaneve
Forse si avrebbe bisogno di meno consulenti e più allenamento al confronto basato ovviamente non su opinioni buttate lì, ma su valutazioni circostanziate, fondate sui fatti e sui comportamenti, contestualizzate rispetto alle loro conseguenze. L’idea è proporre un’inversione di prospettiva verso il giudizio e di considerarlo un viatico di crescita, un allenamento al confronto, a dire e sentirsi dire cose di cui faremmo a meno: non è rompendo lo specchio che sarò la più bella del reame! La realtà che non vogliamo vedere sarà sempre lì e sottraendoci al giudizio avremmo solo perso un’ occasione per crescere e per apprendere comunque qualcosa. D’altronde se una persona mi dice che ho la coda farò spallucce, se me lo dicono in dieci inizierò a preoccuparmi, e se me lo dicono in mille di sicuro mi girerò …almeno per controllare. A meno che non accada il 1° di aprile!
Ben peggiore del giudizio, comunque, anche il più spietato, sono l’ipocrisia, la critica ammiccata, la calunnia. Il giudizio è una prova per chi lo emette e per chi lo riceve: una migliore predisposizione verso di esso renderebbe molto più facile conversare e crescere, in azienda e non solo. In ultimo, se questo può confortare il nostro naturale bisogno di connessione, tutti noi abbiamo diritto di essere amati, anche con le nostre imperfezioni. Dura…durissima.