Cosa c’entrano i pannolini con industria 4.0? C’entrano, eccome. Per capirlo, peraltro, non serve andare in Germania, ma basta imboccare l’uscita di Rho della tangenziale ovest di Milano per entrare in uno dei tanti capannoni industriali che punteggiano il paesaggio. In uno di questi fabbricati ha sede la Fippi, un’impresa famigliare che produce qualcosa come un miliardo di pannolini all’anno. O se preferite, 3 milioni al giorno e mille al minuto. Se avete almeno un figlio – e non usate pannolini lavabili – avete più o meno il 33% di possibilità di usare uno dei loro pannolini.
Già, perché la fortuna della Fippi si chiama private label. O, se preferite la perifrasi, la produzione di beni a marchio del distributore: «La nostra storia nasce in Svezia, durante un viaggio per lavoro – spiega l’attuale amministratore delegato Claudio Guarnerio -. Fu lì che mi padre scoprì quest’azienda che produceva pannolini usa e getta». Per l’Italia era il futuro. Allora, da noi, si usavano ancora i pannolini lavabili – i mitici ciripà in tessuto -, ma gli anni ’70 erano alle porte e la parola d’ordine era praticità: surgelati, brodo in scatola e, per l’appunto, usa e getta come se non ci fosse un domani.
Non è la sola a capire il potenziale di quel mercato, la Fippi. Nel giro di qualche anno, di produttori ne arrivano a frotte, in Italia. A dominare il mercato è il marchio Lines del gruppo Angelini. Fino a metà anni ’80. Quando il colosso americano Procter & Gamble entra in Italia col marchio Pampers: «Inizia una guerra commerciale violentissima – ricorda Guarnerio -. Sconti super aggressivi, campagne pubblicitarie milionarie su televisioni e giornali, telepromozioni con Mike Bongiorno. Noi non eravamo oggettivamente strutturati per una battaglia di quel tipo. Saremmo morti, se avessimo provato a resistere».
La sliding door della Fippi si chiama, per l’appunto, private label: «Incontriamo un azienda familiare tedesca attiva nella grande distribuzione che cerca un produttore di pannolini per venderli a marchio proprio», spiega Guarnerio. Anche in quel caso, erano in pochi a farlo. Ma stavolta le cose vanno diversamente. Mentre gli altri provano con insuccesso a resistere a Pampers, Fippi presidia il mercato del private label, lo estende, si specializza e adegua i suoi processi produttivi alle richieste dei propri clienti. E automatizza. Sempre di più, quanto più possibile.
«Il nostro è un processo produttivo molto complesso», racconta Guarnerio mentre cammina tra le macchine che sparano pannolini sulle linee di confezionamento. In effetti, per fare un pannolino bisogna assemblare 18 materie prime diverse a una velocità di 500 metri lineari: «Non bastasse, il prodotto è molto complesso da controllare dal punto di vista delle specifiche qualitative, perché la velocità è determinante. Abbiamo sensori e telecamere che controllano ed è tutto automatizzato. Di fatto è un processo completamente automatizzato»
https://www.youtube.com/embed/CZE6ydE8mEs/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-IT«Il nostro è un processo produttivo molto complesso», racconta Guarnerio mentre cammina tra le macchine che sparano pannolini sulle linee di confezionamento. In effetti, per fare un pannolino bisogna assemblare 18 materie prime diverse a una velocità di 500 metri lineari: «Non bastasse, il prodotto è molto complesso da controllare dal punto di vista delle specifiche qualitative, perché la velocità è determinante. Abbiamo sensori e telecamere che controllano ed è tutto automatizzato. Di fatto è un processo completamente automatizzato».
Quel che si risparmia in risorse umane e costo della manodopera, si spende in espansione commerciale all’estero e sopratutto in ricerca e sviluppo. Che per un pannolino è cruciale: «Assorbenza e vestibilità sono fattori decisivi – spiega Guarnerio -. Se una mamma trova il pigiama bagnato anche per una sola notte, anche se è stata lei a chiudere male il pannolino, è una cliente persa, che non comprerà più i nostri prodotti». Non bastasse, Pampers cerca di mantenere la sua leadership con l’innovazione continua, per distaccarsi dal private label, che oggi, complessivamente, è suo principale competitor: «Per noi è cruciale il time to market per rispondere al lancio dei nuovi Pampers nei supermercati». Loro, spiega Guarnerio, «fanno ricerca sull’ergonomia, sul posizionamento delle polveri assorbenti tra gli strati, su elastici sempre più morbidi che non irritino la pelle del bambino. Noi dobbiamo sempre essere qualitativamente a quell’altezza. Ma a un prezzo più basso. Non è semplice».
Automazione o no, il nocciolo, alla fine dei conti, sono sempre le persone anche in un’azienda così automatizzata: «Se hai tanti soldi puoi comprare la miglior macchina i migliori strumenti di controllo. Ma se non hai le persone che le sanno gestire, non riesci ad avere un ritorno dell’investimento. L’automazione ha senso solo se metti in campo le persone giuste e le giuste motivazioni». Anche per questo Fippi si è avvalsa della consulenza di Porsche Consulting, che ha aiutato l’azienda rhodense ad acquisire nuove metodologie e a esprimere al meglio il proprio vantaggio competitivo: «Li abbiamo aiutati a esprimere il loro vantaggio competitivo – spiega Giulio Busoni, Principal di Porsche Consulting – Abbiamo sostenuto un percorso già avviato di eccellenza operativa e valorizzato un potenziale inespresso, nel sincronizzare i processi e nel far fare un salto qualitativo al lavoro delle persone». Le persone. Alla fine, c’entrano soprattutto loro con l’industria 4.0. Come i pannolini, forse pure di più.