Mattarella, dal Canada, ci fa sapere che “il sistema bancario è ora in sicurezza“, la qual cosa significa che “può accompagnare la ripresa economica in Italia, che c’è, ed è più forte delle stime iniziali”. Il ministro Padoan ha spiegato che la liquidazione delle banche venete andava assistita da aiuti di Stato che “non sono vietati in Europa, purché vengano erogati rispettando regole precise” (cosa che il nostro Paese ha fatto) e che “non abbiamo salvato due banche che non stavano in piedi, bensì liquidato le banche e salvato lavoratori, risparmiatori e imprese“. Una settimana fa, alla vigilia dell’emanazione del decreto, Mario Sechi scriveva che le banche sarebbero state salvate, ma i contribuenti no, evidenziando che il debito pubblico avrebbe velocizzato il suo galoppo, ma pure che non c’era altra soluzione: “le banche non possono fallire, questa è la realtà del mercato”. Ieri, sul Corriere della Sera, Lucrezia Reichlin ha spiegato che “il principio filosofico secondo cui le ricapitalizzazioni non vadano mai fatte con fondi pubblici è irrealistico”, almeno per il momento, pertanto è andata nel migliore dei modi possibili (che alla Germania girino le scatole – il Financial Times ci ha fatto un titolo, due giorni fa – poco conta, per ora carpe diem). Non una parola per arginare l’indignazione di chi (la maggioranza delle persone) riesce solo a vedere che i piccoli imprenditori, quando le cose si mettono male, pagano di tasca propria, mentre i banchieri no: evidentemente, si è ritenuto sufficiente archiviare la faccenda come ennesimo sfogo populista (non che ce ne sia, di populismo, nell’avversione delle persone verso le banche e chi le amministra). Insomma, rimosso questo dettaglio, il sigillo sull’affaire banche venete è un lieto fine: chi l’avrebbe mai detto? È proprio vero che dai diamanti non nasce niente e dal letame nascono i fiori. Stiamo sereni? Sul col morale? C’è ragione di credere di no, perché va bene la (flebile) crescita, va bene l’ottimismo, va bene che il Veneto nel 2016 ha trainato lo sviluppo del paese (e questo magari rassicura il volgo sulla possibilità che gli aiuti rientrino davvero nelle casse dello Stato), va bene armiamoci e partite, ma a un popolo di santi e poeti – tutti ontologicamente refrattari alla comprensione della politica finanziaria – la sola cosa che appare chiara, in questo momento, è che la pillola è stata indorata e la croce è ancora parecchio più grande della delizia. Hai voglia i giornali a tracciare la storia delle banche venete in cinque punti, il governo a erudire (male) il paese sul bail-in e (poco) sulla socializzazione delle perdite, le anime belle a richiamare alla trasparenza e Mattarella a dire che tutto questo ci farà bene e non è stato solo un modo, piuttosto tardivo, di portare a casa la pelle. Che gli italiani si sentano truffati o, almeno, presi per fessi, è legittimo: non importa quanto sia fondato. Non ci si può aspettare che le persone siano davvero in grado di valutare quella fondatezza, suvvia. Forse, però, si potrebbe fare qualcosa per evitare che il Paese si fermi sempre alla lettura più semplice (che in questo caso è: hanno salvato i banchieri, quella massa di diavoli poco facenti, privilegiati, casta, con gli stessi soldi che estorcono a noialtri, indefessi lavoratori, sempre e per sempre sudditi). Esiste un quesito più umano (equilibrato?) la cui risposta, però, se comunque non governerebbe la faccenda, almeno ne limiterebbe l’impatto emotivo (è pazzesco come si sottovaluti il problema dello scoramento e della disaffezione che creano le vicende bancarie italiane degli ultimi anni, in primis il fascicolo Monte dei Paschi – ricordiamo che in salvataggi bancari l’Italia ha speso la bellezza di 31 miliardi di euro). La domanda è: visto che si fatica a tener saldo il principio per cui il contribuente non deve pagare per gli errori non suoi (cioè il principio del bail-in), abbiamo o no le banche che ci meritiamo?
La domanda è: visto che si fatica a tener saldo il principio per cui il contribuente non deve pagare per gli errori non suoi (cioè il principio del bail-in), abbiamo o no le banche che ci meritiamo?
In fondo, era la stessa domanda che ci si è posti quando lo scandalo di Lehman Brothers ha fottuto l’economia mondiale. Osiamo rintracciare una piccola parte della risposta (ovvero: un po’ sì, abbiamo le banche e i banchieri che ci meritiamo) in un piccolo ma prezioso romanzo di Matilde Serao, appena ristampato (che tempismo!) da Elliot: si chiama Trenta per cento e lei, prima donna a fondare (insieme al marito) un quotidiano (Il Mattino) in Italia, lo scrisse a cavallo tra Ottocento e Novecento. Racconta il disastro economico in cui sprofonda Napoli per via di una serie di truffe perpetrate dalle piccole banche cittadine gestite da scafati speculatori (che ne aprono a decine, prima nei quartieri eleganti, poi in quelli più malfamati, riscuotendo ovunque il medesimo successo: file di disperati convinti di arricchirsi con un paio di firme). L’inganno consiste in questo: attirare i risparmiatori con la promessa di rendere immediatamente interessi fino al trenta per cento per tutte le somme depositate. Nel giro di poche settimane, tutti, ricchi e poveri, malfattori e onesti, preti, sposini, maestre, contadini, impiegati, consigliati dai collettori (che assomigliano un po’ ai family bankers di oggi), vendono tutti i propri averi e si affrettano a versare i gruzzoli derivati agli sportelli degli istituti di credito. Per molti di loro, si tratta di tutto quello che hanno. I soli a non cascare nel tranello sono un professore malaticcio, infermo e di buon cuore (tuttavia, ci cascano sua madre e sua sorella e i cocci sono suoi), come solo a fine Ottocento ce n’erano, un altro paio di intellettuali, qualche moglie di quegli stronzi dei collettori e un minuscolo quotidiano locale (Il Pungolo).
Così descrive, Serao, i collettori: “giovanotti senza professione; figli di famiglia scappati che non avevano voluto imparare niente e che erano prima la desolazione delle loro case; studenti che non avevano potuto continuare i loro studi; giocatori che erano stati radiati dai circoli”. Date un’occhiata a un qualsiasi annuncio di lavoro per family bankers e giocate a trovare le somiglianze.
Il giochino regge per qualche mese, fino all’intervento del procuratore del re, che sventa la maxi truffa e manda a casa tutti i banchieri. Nel romanzo di Matilde Serao, quindi, lo Stato non salva né le banche, né i poveri risparmiatori truffati. È la fregola delle persone nel credere possibile l’arricchirsi nel giro di poche settimane, senza far niente, che Matilde Serao racconta, insistendo sul contagio interclassista di questa idea: non si salvano i poveri e gli analfabeti, ma neppure i colti borghesi. Le scene della folla accalcata davanti agli sportelli e nelle strade antistanti agli ingressi alle banche, lette oggi, fanno impressione perché assomigliano parecchio a quelle che vediamo all’inizio dei saldi, all’apertura dei punti vendita di grandi catene internazionali che promettono sconti esorbitanti ai primi dieci esseri umani che ci mettono piede, ai deliri da black friday (con la sola differenza che, mentre Matilde Serao non s’azzarda mai a giudicare bifolchi i napoletani abbindolati dall’idea che una banca sia un albero di soldi: non si può dire che i nostri cronisti abbiano la medesima compassione). Il punto di Matilde Serao non è svelare quale sia la parentela tra avidità e ingenuità, né dividere il mondo tra corrotti e corruttibili: il suo è un racconto sulla natura della credulità. È impressionante come il secolo che ci separa da questo romanzo, un secolo che ha abbattuto la fede ma ripristinato il fideismo, ammortizzato il nichilismo con il culto di sé, non abbia posto alcuna differenza significativa tra noi di oggi e i napoletani di allora, quantomeno nella disposizione a credere che le occasioni facili richiedano la prontezza di afferrarle senza fare domande.
C’è una collusione tra speculatori e risparmiatori? Certo che no.
Ma quando ci giriamo dall’altra parte, indignati dal governo ladro che salva le banche con i nostri soldi, dobbiamo forse ricordarci che agli azzardi morali dei banchieri siamo tutti noi a offrire mercato.