Oscar Wilde è riuscito a diventare – purtroppo per lui – Dorian Gray. Quando Il ritratto di Dorian Gray è pubblico, nel 1890, Oscar Wilde è bello come un Gray, ha 36 anni, il cappotto con le maniche di pelliccia, il bastone, una cascata di capelli, il foulard e gli occhi magnetici. Nato a Dublino come Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde, il più scandaloso e discusso scrittore inglese del XIX secolo, il dio dei dandy, il guru degli esteti, un manganello nel deretano dei vittoriani imparruccati di perbenismo, morì dieci anni dopo aver scritto il suo capolavoro. Povero in canna. Pingue. Stempiato. Senza denti. A elemosinare pennies ai passanti. A mendicare vitto&alloggio agli inglesi in Italia, in Svizzera, a Parigi. Negli ultimi anni di vita, Oscar Wilde si tramutò nel ritratto di Dorian Gray, sfatto, ulcerato, lacerato. L’uomo invecchia e deperisce; l’icona dell’uomo è immortale, immortalata dall’opera. Nicholas Frankel, professore al Virginia Commonwealth University con patentino wildiano, ha compiuto una bella variazione sulle (spesso stucchevoli) biografie del fantomatico Oscar. In Oscar Wilde: The Unrepeant Years (Harvard University Press, pp.384, euro 27,00), Frankel comincia a narrare la vita di Wilde dalla fine, dagli anni al Reading Goal, tra il 1895 e il 1897, in carcere per la relazione ‘sodomita’ con Lord Alfred Douglas. L’uscita dalla prigione suscita in Wilde una reazione duplice. Da un lato si premura di lottare per migliorare la condizione dei prigionieri nelle carceri inglesi, “mi schiero con loro, ora, d’altronde, appartengo alla loro classe”, scrive al direttore del carcere di Reading. Al Daily Chronicle invia un paio di reportage al vetriolo, promuovendo “riforme per alleviare fame, insonnia, malattie” ai carcerati. D’altro canto, “Wilde vuole godere con euforia della nuova libertà” (Frankel). “Mi sento come fossi risorto dai morti, stordito dalla meraviglia del mondo”, scrive lo scrittore a Fanny Bernard Beere, una attrice; e poi rimarca la dose, “sono votato a una esistenza dedita allo scandalo”. A onor del vero, appena uscito di gabbia, Wilde, andato in bancarotta, cerca di farsi accettare in un ricovero di gesuiti. In effetti, nella lunga lettera indirizzata a ‘Bosie’ Douglas dal carcere, il suo catastrofico De profundis, Wilde scrive che “il posto di Cristo è veramente tra i poeti. La sua intera concezione dell’umanità scaturisce nettamente dall’immaginazione e solo dall’immaginazione può essere capita… Cristo andrebbe annoverato tra i poeti, è vero. Shelley e Sofocle appartengono alla stessa schiera. Ma anche tutta la sua vita è la più stupenda poesia. Nulla nell’intero ciclo della tragedia greca può uguagliare la sua vita in ‘pietà e terrore’”.
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