Nelle stesse ore in cui il Ministro degli Interni tiene in ostaggio su una nave 150 persone senza nessuna imputazione e nessuna colpa che non sia quella di essere degli eritrei e in generale di non essere italiani, mentre nella bolla dello stesso Ministro, fatta di post scritti sui social, come un adolescente egomaniaco in cerca di like, e di selfie, come un influencer sfigato da quattro soldi, divampa un razzismo ferino e rabbioso, per fortuna esiste ancora la realtà.
Per fortuna esiste ancora la realtà, e la realtà la butta in culo ai razzisti. Sì, perché basta prendere un treno notturno che da Parigi porta a Milano per avere la più netta e limpida evidenza che la sua battaglia — la sein kampf per citare referenze vicine al mondo a cui ammicca — non è sbagliata, orribile o cattiva, è semplicemente persa in partenza, è nata morta.
Perché su quel treno che da Gare de Lyon porta a Milano Centrale in un viaggio di notte interminabile, ritmato dal bussare alla porta di ogni cabina da parte della polizia doganale, reperto da museo di un’Europa sgangherata che se va avanti così crollerà sotto il peso della propria antistoricità, in una di quelle cabine c’è un’Italia (e un’Europa) che forse non è ancora evidente agli occhi di quella parte di italiani che aizza ed eccita il Ministro, ma che esiste già ed è il nostro futuro. Che lo voglia, caro Ministro, ma anche che non lo voglia.
Quell’Italia che la marmaglia razzista ancora non vede ha la forma di una famiglia, paradossalmente non molto diversa da quella Sacra che la suddetta marmaglia pretende di difendere da chissà quale invasione culturale: una madre e quattro bambini piccoli. Il più grande di al massimo 12 anni, la più piccola non più di 6. Tornano dalle vacanze a Parigi, il padre non c’è, come succede spesso in tutte le famiglie del mondo — pure in quella Sacra se ricordo bene — è rimasto a casa a lavorare.
La madre ha gli occhi neri e spalancati, si vede che ha un po’ paura. Non parla molto bene la lingua, sa dire giusto “non non, pas en français… italiano”, anche se non è che il suo italiano sia migliore. Quando il controllore le chiede i documenti e fa per spiegarle come si tirano giù le cuccette, lei è impacciata, un po’ perduta. Allora il figlio più grande — 12 anni al massimo — sbuffando smette di giocare Barcellona – Fenerbache sul suo iPad, affaccia la testa e rassicura il controllore: «Non si preoccupi, ci pensiamo dopo» in perfetto italiano.
Quando il controllore se ne va, la mamma si calma un po’ e torna a fare la mamma. Sgrida la più piccola che si appende a una cuccetta, mentre tira fuori dalla borsa un trancio di pizza per ognuno dei suoi figli. Una mamma pugliese non avrebbe fatto di meglio. E intanto che lei alza la voce in pakistano per dire ai due figli intermedi di smettere di giocare e mangiare, loro, che hanno fatto un tempo a testa, si prendono in giro su chi abbia giocato meglio. Tra loro parlano in perfetto italiano, tranne che per un po’ di accento. Bergamasco.
Davanti a questa scena, io rido e loro mi guardano perplessi. Non sto ridendo di loro, ovviamente, rido per un altro motivo. Rido perché di fronte a quella santa famiglia colorata e incasinata, che mangia pizza e gioca all’iPad, e che passa dal pakistano al bergamasco in due metri e mezzo quadrati, gente come il Ministro dell’Interno è un relitto della Storia.
Rido perché è evidente che la realtà ha già superato il Ministro e tutta la marmaglia razzista che si nasconde dietro la sua ombra. Rido perché di fronte a tutto questo, è evidente che la “battaglia” dell’Italia che sta odiando 150 poveracci denutriti e spaventati sulla Diciotti è nata direttamente morta.