Il bastone. Un perché? livido, grosso come un capodoglio, bastardo come un virus, mi tormenta. Perché Pierluigi Battista, giornalista principesco, ha preso a occuparsi di letteratura per il solo gusto di sputtanare la fedina biografica di Boris Pasternak? Perché si permette di trafficare con i morti sputando in bocca a uno dei più grandi poeti di ogni tempo? Capisco, c’è di mezzo un anniversario rotondo – 60 anni fa il ‘gran rifiuto’ di Pasternak che rinuncia al Nobel per la letteratura – e la smania, da parte del nano, di castrare il gigante – sia detto senza offesa: potrei scrivere agilmente un pamphlet dimostrando l’algida viltà di Rainer Maria Rilke per restare incenerito da un qualsiasi verso di una qualsiasi delle Elegie duinesi. La tesi di Battista, in un saggio mal scritto, pubblicato in carattere taurino – ergo: enorme – e vagamente disinformato (si veda la bibliografia, un centone molto parziale di testi molto noti), è che Pasternak era un senza palle, “non si metteva (quasi) mai in urto con le autorità”, “viveva in uno stato permanente di doppiezza un po’ cinica”, era un egocentrico agnellino, “molle e accomodante”, “che viveva nel mondo riparato del privilegio”. Di primo acchito mi vien da dire: e allora? Lo scrittore ‘impegnato’ di solito è un patetico perbenista, uno sguaiato urlatore, un fondamentalista dell’ottusità; lo scrittore deve sbattersene del mondo compiendo l’opera – Pascoli e Montale, i poeti più vasti della nostra modernità, non erano dei Lancillotto, ma ciò non leviga un grammo della loro grandezza. La ruvida malizia di Battista – gli sarà andato di traverso Il dottor Zivago? l’ha mai letto? – costella il saggio di piccole, letali omissioni.
Basterebbe leggere il ‘Meridiano’ Mondadori che raduna le Opere narrative di Pasternak – che Battista, curiosamente, non cita nella sua sghemba bibliografia –, a cura del sommo slavista Vittorio Strada, per capire che il poeta russo non se l’è spassata nella Russia sovietica. “Il potere dei Soviet si è gradualmente trasformato in una specie di sudicio ospizio ateo… Tutto qui è morto, morto”, scrive il poeta all’amico Dmitrij Petrovskij nel 1920; nel 1932 il poeta “tenta il suicidio” perché “viene proibita la pubblicazione della raccolta delle sue opere” (la testimonianza di S.P. Bobrov è emblematica: “L’immagine quasi insopportabile della persecuzione di Pasternak mi tormenta”); nel 1933 “gli viene negato il permesso di ripubblicare Il salvacondotto”; nel 1934, al Congresso degli scrittori, fa la sua ammissione di sconforto, verticale, “Non sacrificate la faccia per la posizione… troppo grande è il pericolo di diventare dei dignitari socialisti”; nel 1935 “stremato dall’insonnia, per ordine di Stalin è inviato a Parigi per partecipare al Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, dove la sua assenza verrebbe attribuita a ragioni politiche”, e lì, frastornato, darà la più rivoluzionaria definizione possibile della poesia, tra scrittori europei ubriachi di comunismo sovietico: “quanta più felicità ci sarà sulla terra, tanto più facile sarà essere poeti”.
Boris Pasternak non era un guerriero, non lo voleva essere. Lo ha detto lui, candidamente (sentite che bella frase: “una vita senza mistero, senza intimità, una vita messa in mostra tra il luccichio degli specchi, è per me inconcepibile”), lo ha scritto, definitivamente, il suo esegeta più grande, Angelo Maria Ripellino – che Battista manco si sogna di citare, troppa grazia – “Pasternak si ritrasse sin dagli inizi in una sua gelosa solitudine… egli passava nel folto delle battaglie, che avrebbero mutato la Russia, come un sonnambulo, destandosi a tratti per annotare con voce assonnata, non le gesta di un popolo, ma i prodigi del cosmo”. Durante la Seconda guerra, al posto di imbracciare il fucile – la vigliaccheria di quelli che si pensano coraggiosi – il cinquantenne Pasternak pensò di salvare l’Occidente traducendo Shakespeare e Goethe; ha intrattenuto rapporti – non certo da lacché, ma di cauta cortesia – con Stalin, perché il poeta è aperto a ogni volto, non si aliena dal mostro, lo studia e lo incorpora; ha scritto poesie indimenticabili che resteranno anche quando di ‘Pigi’ Battista resterà nulla, una piramide di editoriali sbiaditi sepolti nell’archivio del Corriere, in mezzo a quelli di altre centinaia di giornalisti, di parolai, di parolieri.
Accusare Pasternak di aver assunto “il ruolo del poeta di regime obbediente e prono” è francamente una vigliaccata. Basterebbe raccontarne il funerale, il 2 giugno del 1960, seguito da variopinti agenti dei servizi russi e “da una folla di oltre quattromila persone” lì “per dire addio al poeta, ma anche per esprimere un evidente dissenso politico”, censito, che schifo, da una misera noterella, sul margine della “Literaturnaja Gazeta”, che diceva così, “La Direzione del Fondo Letterario dell’Urss comunica l’avvenuta dipartita dello scrittore Pasternak Boris Leonidovic”, stop (tutto è narrato in Boris, Aleksandr, Evgenij Pasternak, La nostra vita, a cura di L. Avirovic, Excelsior 1881, 2009, libro importante e ovviamente dimenticato da Battista). In questo saggio dal titolo sballato, tanto inutile da far tremare, Battista non si degna di citare nemmeno una poesia di Pasternak, non gli importa: importante è dileggiare il poeta – gioco in cui si mostrarono esperti i ‘compagni’ italiani alla pubblicazione, per Feltrinelli, del Dottor Zivago, proni a reprimere il ‘disimpegno’ e l’inattualità voluttuosa e sentimentale del romanzo. Paradosso mastodontico: quando il poeta sfonda e sfigura la Storia – Ezra Pound, Gabriele d’Annunzio – è degno di processo e di vilipendio civico, se preferisce stare ai margini della Storia, in esilio dai propri simili, lo si bacchetta lo stesso. L’unica battaglia che dovrebbe fare Battista è convincere il suo giornale a pubblicare tutti i giorni, in prima pagina, l’editoriale in versi di un poeta. Ci vuole troppo coraggio. Meglio accanirsi sui morti.
Pierluigi Battista, Il senso di colpa del dottor Zivago, La Nave di Teseo 2018, pp.94, euro 8,00
La carota. “Il tuo libro è al di sopra di ogni giudizio… ciò che spira da esso è grandioso… mi sono corsi i brividi per la schiena leggendo i passaggi filosofici: avevo paura che da un momento all’altro mi fosse svelato il segreto ultimo, quello che rechi dentro di te e che per tutta la vita cerchi di esprimere o che ti aspetti di trovare espresso nell’arte o nella scienza, e, nello stesso tempo, sei spaventato a morte che ciò avvenga, perché esso deve rimanere un eterno enigma”: così, il 29 novembre del 1948, Ol’ga Fréjdenberg, la cugina di Pasternak, scrive al poeta dopo aver letto la prima redazione del Dottor Zivago (detto per inciso: l’epistolario tra Ol’ga e Boris, edito da Garzanti come Le barriere dell’anima, è troppo potente perché ‘Pigi’ Battista se ne curi, lo citi). Vero. In parte. Del Dottor Zivago sono indimenticabili le parti filosofiche e quelle descrittive, paesaggistiche: quelle ‘romanzesche’ sono malriuscite.
“Melodrammatico e ignobilmente scritto”, lo diceva, con consueto cinismo, Vladimir Nabokov. Ecco: l’opera per cui Pasternak è più noto, è quella meno bella – un esempio di prosa brulicante di idee, piuttosto, è Il salvacondotto. Sono magnifiche, invece, le poesie poste in calce a “Zivago”, che costituiscono la vera rivelazione del romanzo. Ora, evviva, Le poesie di Jurij Zivago sono diventate un libro a parte, una autonoma raccolta di poesie, magnetica, per la traduzione di Clara Strada Janovic, la moglie di Vittorio Strada. Nel libro, edito da Feltrinelli, ovviamente ignorato da Battista, ci abbaglia una immagine diversa del poeta russo, quasi opposta a quella fabbricata da ‘Pigi’ (a chi deve credere il pio lettore, allora?): “pur accettando la tremenda realtà del regime e comprendendone la natura, non cedette alla sua ideologia e mantenne la sua indipendenza”; “Pasternak non fu mai un poeta ‘sovietico’… i critici sovietici ideologi del regime sentivano e denunciavano Pasternak come un elemento estraneo alla nuova realtà”; “verso i suoi compagni di poesia Pasternak ebbe sempre un atteggiamento di partecipazione e di aiuto”. Clara Strada Janovic, in particolare, incorpora nel testo introduttivo la testimonianza del drammaturgo sovietico Aleksandr Afinogenov, “caduto politicamente in disgrazia”, che scrive: “la gente quasi tutta si è dimostrata diversa da come credevo.
Soltanto Pasternak si è manifestato a me in tutta l’infantile semplicità della sua umana grandezza e cristallina trasparenza. Accanto a un uomo così impari la cosa più importante: l’arte di vivere in qualsiasi circostanza in piena autonomia”. Tra le poesie, venticinque, di albeggiante bellezza, scelgo Convegno: lui e lei si trovano, nella neve – “neve acquosa sulle ciglia/ nei tuoi occhi angoscia” – e si amano senza toccarsi, come fossero una sola cosa: “a tracciare un confine/ tra noi due non riesco”. Sembra la notte vissuta nel gennaio del 1940, di cui Marina Cvetaeva racconta all’amica Ljudmila, “Boris lasciando a metà le ultime righe dell’Amleto, ha risposto immediatamente al mio richiamo – e abbiamo camminato sotto la neve e sulla neve – fino all’1 di notte – e mi è passato tutto – come un giorno mi passerà – tutta la vita”. L’amore, ecco ciò che terrorizza l’impero della collettivizzazione, che annienta le individualità: “Ma chi siamo e di dove/ se di tutti questi anni/ sono rimaste le maldicenze/ e al mondo non ci siamo più?”. Bisognerebbe lottare perché qualche grande editore pubblichi, in unico volume, tutte le poesie di Pasternak – ci sono alcuni poemi, Spektòrskij, ad esempio, del tutto scomparsi – al posto di abbandonarsi, come fa ‘Pigi’, alla piccolezza della maldicenza.
Boris Pasternak, Le poesie di Jurij Zivago, Feltrinelli 2018, pp.132, euro 20,00