Capiamoci: il caricatore scaricato addosso a Marcello Bruzzese in pieno centro a Pesaro, nel bel mezzo del pomeriggio, nel giorno di Natale, con i sicari tranquillamente scappati tra le vie del centro non è un omicidio di ‘ndrangheta come viene comodo raccontare ai banalizzatori professionisti. Sì, è vero, c’è la vicenda strettamente criminale del fu Marcello, fratello di quel Girolamo Biagio che dai primi anni del duemila ha deciso di collaborare con la giustizia e figlio di quel Domenico Bruzzese che fu il braccio destro del potentissimo boss boss Teodoro Crea e che passò ai figli i segreti del clan. Nell’agguato in cui nel 1995 morirono il padre e il cognato anche Marcello Bruzzese rimase ferito: questa storia nella sua prima fase è tutto sangue, vendetta e polvere da sparo come troppe vicende di mafia.
Ma non è questo il punto, no. A Pesaro è stato ucciso un uomo che ha affidato, insieme alla moglie e ai suoi due figli, la propria vita alla protezione dello Stato. Di questo dovremmo tutti rumorosamente parlare: uno Stato che non difende i suoi collaboratori, uno Stato che non mantiene la promessa di sicurezza agli uomini che decidono di abbracciare la legalità, uno Stato che firma la protezione di una famiglia e lascia il padre per per terra martoriato dalle pallottole è uno Stato che al di là della retorica è messo in ginocchio dalla ‘ndrangheta, colpito nei suoi nervi più scoperti. Non sanguina solo il cadavere di un pentito, no: sanguina la credibilità di un Paese che nonostante i roboanti proclami sulla guerra alle mafie (dovrebbero sparire in pochi mesi, al massimo qualche anno, secondo il banalissimo ministro del’inferno) si ritrova a fare i conti con un’onta indegna per una democrazia. Un protetto morto ammazzato è una roba gravissima, senza bisogno di spiegazioni. Lo Stato perde, la mafia vince, il messaggio è chiaro: decidere di abbandonare la criminalità cercando rifugio nello Stato non funziona, no. La ‘ndrangheta ha colpito la credibilità dello Stato, tra l’altro in un momento in cui pascola felice in mezzo a una generalizzata disaffezione.
Capiamoci: il caricatore scaricato addosso a Marcello Bruzzese non è un semplice omicidio di ‘ndrangheta. A Pesaro è stato ucciso un uomo che ha affidato, insieme alla moglie e ai suoi due figli, la propria vita alla protezione dello Stato.
Sarebbe il momento di sentire il pugno duro del ministro dell’interno, no? Colui che ovunque protegge non disdegnano qualche calcio sui denti ai disperati dovrebbe affilare i denti di fronte a tanta gravità. E invece? E invece Salvini, come un vocalist della domenica impegnato a dar voce ai nostri intestini, si occupa di comunicare al Paese la sua colazione con pane e Nutella, nella sua faccia bolsa di bambino che ancora non ci crede di essere arrivato fin lì, pronto a travestirsi con qualche divisa insozzata per la sua prossima carnevalata mentre la mafia (che vorrebbe sconfiggere, beato lui) gli ha ammazzato un protetto in salotto. La retorica della sicurezza (declamata e inapplicata per incapacità di comprenderne la complessità) è fuffa, ancora una volta, ancora sulla pelle degli altri, sulla pelle dei più esposti, dei più fragili e degli ultimi. L’assassinio di un collaboratore di giustizia si inserisce perfettamente nella bavosa retorica delle scorte come privilegio, nella scia dell’autodifesa come migliore difesa possibile e nella superficialità con cui il tema dell’antimafia viene trattato.
Ora, per favore, provate a chiudere gli occhi. Immaginate un ministro dell’interno, immaginate l’odiassimo Angelino Alfano così vi viene già facile, pensatelo carnevalescamente travestito da vigile urbano o pompiere o poliziotto alla bisogna, figuratevelo mentre twitta su operazioni ancora in corso (Alfano l’ha fatto, a dire la verità), immaginatelo fare il figo con qualche donna stuprata in Libia e il suo bambino, pensatelo che si spreme tra gnocchi e nutella e lasagne mentre eruttano i vulcani, sognatelo mentre chiama Decreto Sicurezza un decreto che sparge disperati in giro, ipotizzatelo impegnato a chiudere i porti mentre la ‘ndrangheta brinda alla vendetta riuscita: ci sarebbe la rivoluzione, là fuori.
E invece qui niente. Zero. Silenzio. La morte di Bruzzese al massimo partorirà la passerella del ministro dell’inferno preoccupato di riuscire bene nelle foto per i social. Niente, il nulla. Un bluff che non durerà a lungo. C’è solo da sperare che non lasci più macerie di quelle che già intasano il Paese.