Sentite questa! Nei prossimi 5 anni verranno effettuati tanti lanci nello spazio quanti ne sono stati realizzati dal 1957 a oggi, con l’uso civile-commerciale dei satelliti che prevarrà rispetto a quello militare. Per un mercato floridissimo di programmi spaziali con finalità di profitto e con la conseguenza che un’attività industriale così complessa e con obiettivi di lungo periodo comporterà inevitabilmente rischi molto particolari.
Quali? “Un programma spaziale – spiega Giovanni Favero, direttore responsabile del bimestrale “Upside Risk” – consiste nella progettazione e realizzazione di satellite, lanciatore per l’accesso allo spazio e relative infrastrutture spaziali. Talvolta presuppone anche l’operatività dell’uomo nello spazio. Il finanziamento e la messa in opera di un programma spaziale è una delle più sofisticate attività a cui l’uomo possa ambire e tale programma è influenzato da elementi tecnologici, storici e politici. Dagli anni Sessanta la gestione dei rischi dei programmi spaziali ha costituito il modello metodologico di riferimento per il risk management di tutti gli altri settori industriali con metodologie di gestione standardizzate e consolidate. Senza dimenticare temi di più largo respiro sociale ed economico come il problema ambientale che nello spazio arriva alla quarta dimensione, dopo le contaminazioni di suolo, acqua e aria”.
Concentrandosi sul mercato dello “Space Insurance”, a livello globale, vale un miliardo di dollari per una sessantina di gruppi assicurativi che si occupano di assicurare o riassicurare i programmi spaziali. Con un “parco macchine” ampio e articolato. Si va infatti dal satellite artificiale alla navicella spaziale senza equipaggio, poi abbiamo: sonda spaziale; cargo spaziale come Progress, Automated Transfer Vehicle e H-II Transfer Vehicle; navicella con equipaggio; capsula spaziale tipo Mercury, Gemini, Apollo, Sojuz e Shenzhou; navetta spaziale che funge da traghetto fino all’orbita terrestre, come Space Shuttle e Buran; astronave, nave spaziale progettata per il volo interstellare, comune nella fantascienza ma non ancora realizzata (anche se è oggetto di studio teorico da parte dei fisici); fino alla stazione spaziale.
In riferimento ai rischi “property” e “liability” connessi a razzi, sonde, satelliti, tanto in fase di progettazione, realizzazione e lancio, quanto in fase di operatività in orbita, l’ultimo dato ufficiale e consolidato di questo specifico mercato risale al 2014: 680 milioni di dollari di premi complessivamente raccolti a livello mondiale, un sottoinsieme del più ampio mercato aerospaziale valutato in termini di raccolta complessiva nell’ordine di 6 miliardi di dollari.
“Che oggi – commenta Giovanni Favero – si può stimare tranquillamente in una raccolta complessiva che supera il miliardo di dollari e in forte crescita grazie al significativo aumento di lanci e operatività in orbita di CubeSat, piccoli satelliti costituiti da moduli prefabbricati che consentono, soprattutto ad aziende operanti nel settore della banda larga e dei media, di dotarsi di una propria tecnologia satellitare a basso costo. E si può ragionevolmente dire che entro cinque anni il traffico orbitale sarà almeno tre volte il traffico attuale, catalogabile in 17.830 oggetti tecnologici di cui solo un decimo attivi e di questi ultimi solo il 50% assicurato”.
Oltre cinquant’anni di programmi spaziali hanno creato una nuova tipologia di problematica e quindi di business: la gestione dei detriti spaziali o “space debris”: al momento i detriti presenti in orbita non sono recuperabili ed è difficile stabilirne anche traiettoria e numero
Oggi la capacità totale assicurativa e riassicurativa è pari a 750 milioni di dollari per singolo lancio e circa 550 milioni di dollari per singolo rischio in orbita. E al 2014 – ultimo anno rilevato – sappiamo che sono stati registrati sinistri per 634 milioni di dollari derivanti da 6 eventi di cui 5 in fase di lancio e uno in orbita. Inoltre, secondo la Satellite Industry Association, il settore del risk management connesso allo sviluppo dell’industria spaziale, a livello globale, ha sviluppato un fatturato complessivo di 335 miliardi di dollari (dati 2015), un terzo del quale è generato da compagnie di telecomunicazione impegnate nello sviluppo della banda larga e dei media, con 1.381 satelliti operativi, riconducibili a operatori di 59 Paesi diversi (e dei 202 satelliti lanciati nel 2015, 108 erano CubeSat, mandati in orbita principalmente per piani di ricerca e osservazione della Terra).
E anche se sembra pazzesco, va detto che oltre cinquant’anni di programmi spaziali hanno creato una nuova tipologia di problematica e quindi di business: la gestione dei detriti spaziali o “space debris”. Difatti oggi più che mai è necessario pianificare il recupero e la gestione dei detriti generati dai satelliti in orbita per evitare il possibile scenario teorizzato da Donald Kessler, famoso astrofisico e consulente della NASA, ovvero una reazione a catena generata dagli urti tra satelliti che renderebbe lo spazio prossimo alla Terra inservibile per molte generazioni, impedendo il lancio di qualsiasi dispositivo. Questo perché gli oggetti in orbita viaggiano a velocità elevatissime e l’energia cinetica di una collisione produce un elevato numero di detriti, che a loro volta possono provocare altre collisioni seguendo un effetto domino. E all’aumento del numero di lanci prospettato per il prossimo quinquennio, corrisponderà un aumento considerevole di detriti e di satelliti obsolescenti.
La questione si fa ancora più interessante perché al momento i detriti presenti in orbita non sono recuperabili ed è difficile stabilirne anche traiettoria e numero. Questa realtà costringe gli operatori satellitari a eseguire manovre al fine di evitarli che riducono il carburante a disposizione dei satelliti e con esso anche la durata della missione. E fa piacere registrare che tra i competitor di questo business nascente ha un ruolo di prim’ordine l’azienda comasca D-Orbit, che ha brevettato il D3, un dispositivo propulsivo basato su propellente solido che, installandolo prima del lancio, garantisce la rimozione rapida e sicura di un satellite al termine della sua missione, tecnicamente detta “decommissionamento dei satelliti” (inoltre D-Orbit produce anche il D-Raise, dispositivo che posiziona più velocemente i satelliti in orbita).
“Per quanto riguarda i satelliti più lontani – spiega Luca Rossettini, ingegnere aerospaziale, socio fondatore e CEO di D-Orbit –, per esempio quelli usati per le telecomunicazioni o quelli nelle orbite MEO (acronimo di Medium Earth Orbit, orbita terrestre media) e GEO (Geostationary Earth Orbit, orbita geostazionaria), data la loro lontananza (tra i 2.000 e i 36.000 chilometri), non ha senso riportarli sulla Terra. Per questo motivo è stata creata e normata un’orbita cosiddetta ‘cimitero’, dove i satelliti vengono riposizionati e dove non possono arrecare danni. In questo caso, noi, attraverso D-Raise, ci occupiamo di spostarli molto rapidamente in tale orbita che è una sorta di discarica spaziale. Mentre per la manovra di deorbitaggio nelle orbite basse, chiamate LEO (Low Earth Orbit (orbita terrestre bassa, ovvero entro i 2.000 chilometri), il satellite segue una traiettoria diretta verso un punto preciso sulla superficie terrestre non a rischio e vi è anche una regolamentazione specifica che obbliga determinate classi di satelliti a rientrare in questo modo. A oggi l’unica tecnologia che consente di farlo in maniera rapida e controllata è la nostra D3”.
Anche un piccolo frammento, che nello spazio viaggia dai 20.000 ai 30.000 km/h, porta con sé un’energia cinetica talmente alta che potrebbe distruggere un satellite
La regolamentazione è sancita dall’Outer Space Treaty (trattato sullo spazio extra-atmosferico), stipulato nel 1967, che ha posto le basi del diritto aerospaziale. Le norme del trattato coprono diverse problematiche: dal divieto di collocare armi di distruzione di massa sui corpi celesti, alle tematiche di responsabilità per gli oggetti mandati nello spazio. Mentre il mercato fino a qualche anno fa era prevalentemente governativo, a parte l’orbita geostazionaria che per definizione è sempre stata utilizzata da operatori commerciali. La maggior parte dei satelliti è stata lanciata dai governi, sia in ambito civile sia in ambito militare. Quello che è successo negli ultimi anni è un capovolgimento di questa situazione, con la sola azienda privata One Web che ha in progetto di lanciarne 900 in tempi brevi.
Dallo Sputnik, nel 1957, a oggi, sono stati lanciati circa 6.000 satelliti: di questi, circa 400 sono stati lanciati verso traiettorie interplanetarie; dei restanti, solo 800 sono ancora operativi e circa l’85% degli oggetti spaziali appartiene alla classe dei satelliti “morti” (dati: “Upside Risk”, Numero 7, novembre-dicembre 2016).
Pensando ai satelliti obsoleti in orbita, esiste un modo per poterli recuperare e limitare la problematica ambientale che generano e genereranno in futuro? “Si tratta di una nuova frontiera”, risponde Luca Rossettini. “Molte università e agenzie spaziali stanno studiando tecnologie per andare a recuperare i vecchi satelliti o quelli non funzionanti. Questo tipo di missioni vengono definite ADR (Active Debris Removal). Sono stati studiati i modi più disparati per il recupero attivo dei detriti e dei satelliti: bracci robotici, arpioni, reti, eccetera. E diverse aziende, noi compresi, stiamo sviluppando diversi prototipi, tuttavia non esiste ancora un mercato ADR”.
Quindi, tenendo conto di questi 6.000 satelliti, dei quali indicativamente ce ne sono ancora in orbita 4.000 (alcuni degli altri sono rientrati, altri sono esplosi e altri sono andati a sbattere uno contro l’altro generando frammenti), attualmente sappiamo che vi sono oltre 20.000 detriti. Questi sono monitorati. Sappiamo dove sono grazie a telescopi e radar. Però milioni di frammenti non abbiamo assolutamente idea di dove si trovino. Anche un piccolo frammento, che nello spazio viaggia dai 20.000 ai 30.000 km/h, porta con sé un’energia cinetica talmente alta che potrebbe distruggere un satellite. Ecco perciò che riuscire a smaltirli apre scenari di business colossali!
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