Economia circolareIl riciclo del legno è un’eccellenza italiana (ma la Novolegno non può essere abbandonata così)

Le aziende del consorzio Rilegno (ma non solo) da anni recuperano e riutilizzano materiali legnosi di scarto da cui viene tratto legno per pannelli. Questo non impedisce che lo stabilimento di Novolegno ad Avellino, venga chiuso e i lavoratori licenziati: tra luci e ombre, il caso Fantoni di Osoppo

Il riciclo del legno come eccellenza

All’estero il legno di scarto viene bruciato per ricavarne energia. In Italia, invece, lo si ricicla. È una delle iniziative del consorzio Rilegno, che raggruppa 400 piattaforme che si occupano del recupero e del riciclo del legno post-consumo, dal pallet (i bancali) alle cassette per l’ortofrutta, compresa la raccolta differenziata dei comuni. Una rete ampia, che si estende attraverso 14 impianti di riciclo e più di 4mila comuni convenzionati, e che consente – come rispecchia una ricerca del Politecnico di Milano, presentata al convegno “The future today”, promosso da Rilegno e da FederlegnoArredo – di raccogliere 2,5 milioni di tonnellate di legno e di destinarle al riciclo, evitando il consumo di legno vergine che, a sua volta, diminuisce le emissioni di Co2 (circa del 2% del totale nazionale).

Gli effetti benefici si riverberano anche sul piano economico, sia per le imprese che effettuano il riciclo, sia per quelle che ne traggono vantaggio in senso produttivo (industria del mobile) sia per i consumi generali diffusi. Un impatto economico, nota la ricerca, di 1,4 miliardi di euro, per seimila posti di lavoro. In poche parole, ecco il meccanismo virtuoso dell’economia circolare. Adesso è di moda, ma in Italia è in voga da almeno 20 anni.

Il caso Fantoni

«I precursori sono state le aziende del legno mantovane», spiega Paolo Fantoni, vicepresidente di Fantoni Spa, di Osoppo (provincia di Udine) una delle eccellenze italiane per la produzione di pannelli in Mdf e truciolare, e tra le principali realtà nel settore dei mobili per ufficio e dei sistemi fonoassorbenti. La sede principale si estende su un’area di oltre un chilometro, la più grande d’Europa. «Poi il decreto Ronchi, che ha cambiato il principio della gestione dei rifiuti in Italia, ha favorito gli investimenti nei prodotti in truciolato», aprendo le porte a una rimodulazione a cascata di tutta la tecnologia del ciclo produttivo.


«Per il pannello fatto in truciolato si può vedere un parallelismo con la carta riciclata. All’inizio fu vista con sospetto, se non repulsione. Poi venne adottata e oggi è cosiderata un valore aggiunto. Lo stesso vale, e deve valere, anche per il legno riciclato. All’inizio i mobilieri erano sospettosi, ma adesso anche il pannello trova “simpatia”». In questo senso «le logiche di sostenibilità sono un volano, anche se l’industria del mobile non ha ancora fatto tutte le attività di marketing necessarie, come era avvenuto con la carta». Questo non toglie però «che l’industria italiana del legno sia, comprese le aziende al di fuori di Rilegno, la più sostenibile al mondo. Vengono dall’estero per studiarci, per capire le nostre tecnologie». Ma non da tutti i Paesi: «Quelli cosiddetti emergenti, in realtà, non hanno ancora mostrato un interesse o una coscienza del riciclo».

Tutto bene, o quasi. Uno dei problemi, per esempio, è il limite dei costi. A differenza del prodotto mobile finito, «che ha un valore aggiunto molto alto», i pannelli in truciolato hanno una scarsa mobilità, cioè «trasportarli, se si considera il costo per unità, è proibitivo». Per funzionare anche dal punto di vista economico e non solo ambientale, non possono fare lunghi viaggi: devono trovare vicino aziende di trasformazione (leggi: mobilifici) o di utilizzo tout court. Serve, insomma, che tutto il sistema sia compatto e sviluppato. Per quanto riguarda l’export, «buone prospettive le danno i Paesi del Nord Africa, che hanno un boom demografico e un conseguente boom nell’edilizia: i costi per il trasporto dei nostri pannelli, sia da legno riciclato che da legno vergine, dall’Italia, sono più bassi rispetto ad altri Paesi», a meno che non intervengano vere e proprie politiche di dumping da parte di «Paesi come Brasile e Malesia», fatte apposta per inserirsi nel mercato.



Il problema Novolegno

Ma i costi sono proprio alla base di uno dei problemi che riguarda l’azienda proprio in questi giorni: il caso dell’azienda Novolegno, con sede ad Avellino, che Fantoni vuole chiudere, licenziando i 117 dipendenti. «È una lunga storia. Siamo andati in Irpinia 40 anni fa perché allora la cortina di ferro ci impediva di rifornirci di legno vergine dalle foreste croate e slovene, come invece facciamo oggi». A quel punto «sfruttare i boschi cedui e la tradizione dei boscaioli irpini era sembrata una scelta vincente», spiega Fantoni.

«Con il tempo, però, le cose sono andate peggiorando: c’è stato un calo generale di posti di lavoro nel bosco, che ha diminuito la produttività. In più l’utilizzo del legno per le case e per la ristorazione ne fa alzare il prezzo. A noi, che producevamo Mdf (Medium-density fibreboard) da legno vergine, è convenuto aprirci alla produzione di Mdf da rifiuti legnosi, e Novolegno è stata la prima azienda al mondo». Ma la conversione non è bastata: «L’Mdf non è idoneo per i mobilifici (a causa della sua non-laccabilità) e abbiamo dovuto orientarci sul settore dell’imballaggio ortofrutticolo, ma anche questo non ha funzionato. Abbiamo ideato una nuova cassetta per la frutta e la verdura in Xilopack, perché fosse simile al cartone, ma non è andata. La Grande Distribuzione ha preferito puntare sulla plastica e sul cartone, anche solo perché favorivano la conservazione dell’umidità dei prodotti». Insomma, «adesso siamo gli ultimi ad abbandonare questo mercato, dopo che lo hanno fatto tutti gli altri».

In più, «nemmeno il pannello truciolare, prodotto laggiù, non conviene», e il discorso è quello di prima: i costi di trasporto, che per percorrere quelle distanze diventa proibitivo. «Non è un caso che ormai tutta l’industria sia dall’Emilia Romagna in su, con qualche eccezione per la Toscana e il pesarese». Adesso il problema, oltre che economico, diventa anche sociale. «Ma noi abbiamo investito, abbiamo pensato a diverse soluzioni, non hanno funzionato. Non abbiamo davvero visione per il futuro in quello stabilimento».

E sfruttare il sito proprio per il mercato straniero del Nord Africa? «Rimane il problema della marginalità: sulle cassette ortofrutticole, per esempio, in Egitto risolvono tutti utilizzando speciali gabbie fatte con foglie di palma. A costi bassissimi. Mentre per noi il mercato presenta problemi di marginalità».

La necessità di una soluzione migliore

Proprio giovedì 14 marzo la trattativa al Mise con i rappresentanti dei dipendenti, che pure qualche speranza l’aveva accesa, è stata chiusa. La Fantoni ha confermato la decisione di non investire più nello stabilimento campano, suscitando la rabbia dei lavoratori. L’unico spiraglio è la concessione di un nuovo tavolo di trattativa previsto ad aprile. Il consigliere Francesco Todisco, di MdP, ha parole dure sulla questione: «Non è tollerabile l’atteggiamento della proprietà che non intende ritirare la procedura di mobilità dei lavoratori, non offrendo, quindi, la possibilità alle istituzioni e alle rappresentanze sindacali di lavorare a un’ipotesi di rilancio o di riconversione dell’azienda. Continueremo a fare la nostra parte perché i lavoratori siano rispettati in tutti i loro diritti».

Venerdì lo sciopero, e sabato un incontro con i lavoratori per decidere il da farsi. Di sicuro, la posizione decisa dalla Fantoni non è piaciuta né alle istituzioni né ai lavoratori, e qualcuno promette già di rendere complicato l’abbandono dello stabilimento, Il sindaco di Pianodardine, paese della Novolegno, promette battaglia. «Dall’interno dello stabilimento non si muoverà nulla. Non consentiremo di trasportare i macchinari altrove. L’azienda dovrà preoccuparsi di bonificare l’intera area ed occuparsi della tutela e sorveglianza della stessa. Non hanno voluto sentire ragioni, neanche verificare la disponibilità di altri imprenditori».

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