Meno spazio, meno impatto. Pochi metri quadrati che, però, equivalgono a stili di vita più sani e più rispettosi dell’ambiente. È il fenomeno, quasi tutto americano, delle tiny house. Piccole casette di un massimo di 40 metri quadrati, alcune anche mobili, in cui giovani e coppie decidono di andare a vivere, voltando le spalle ai grandi palazzoni made in Usa. E così facendo salvano il pianeta.
Certo, le ragioni possono essere diverse. Tra queste, oltre al desiderio di vivere in modo più semplice, con meno oggetti e cose cui badare, c’è anche quello di raggiungere una certa indipendenza economica, dal momento che le tiny house costano molto meno del classico appartamento.
In più, come si premura di spiegare questo articolo (con corrispondente tesi di dottorato), trasferirsi in una tiny house migliora il proprio impatto ambientale. Non solo in termini pratici (meno consumi, meno emissioni, meno inquinamento) ma anche in termini psicologici: lo stile di vita cambia, e cambia anche il modo in cui viene percepito l’ambiente.
Lo studio ha riguardato 80 abitanti di tiny house dislocati negli Stati Uniti. Ha calcolato la loro impronta ecologica – sia prima del trasferimento che dopo – e, attraverso alcune interviste approfondite, ha sondato anche i cambiamenti nel loro atteggiamento nei confronti dell’ambiente.
Risultato: è stato un grande successo. L’impronta spaziale (spatial footprint) di ciascuno di loro si assestava, più o meno, intorno ai 3,87 ettari globali. Per capirsi, per alimentare l’esistenza di un abitante di tiny house, serve una quantità di terra specifica (come è ovvio, teorica). In questo caso si può dire che ogni abitante di una tiny house consuma, in un anno, circa quattro campi da calcio. Che è poco, se si pensa che un abitante di una casa normale statunitense ha bisogno, ogni anno, di ben otto campi da calcio.
Ma non solo: le abitudini sono cambiate. Secondo le interviste raccolte, gli abitanti delle tiny house hanno cominciato a mangiare cibi più ecologici (cioè che richiedono un minor consumo di energia sia nella produzione che nel trasporto), orientandosi verso prodotti locali o, addirittura, coltivandoli di persona. Hanno ridotto il loro utilizzo dei mezzi, sia privati che pubblici, spostandosi meno e rinunciando a viaggi e movimenti. In più, hanno ridotto molto gli acquisti: un po’ per necessità, un po’ per coscienza. È cresciuto il rifiuto dell’accumulo, è migliorata la sensibilità per il riciclo di plastica e carta, è diminuita, in sostanza, la spazzatura.
E, nonostante vivere in una tiny house sia comunque un’esperienza difficile, hanno trovato una nuova dimensione per se stessi. Più piccola, ma più giusta nei confronti del pianeta.