Le elezioni europee di domani si giocheranno nel paradossale scenario di una campagna in cui nessuno ha parlato di Europa. Nessun leader aveva una visione politica di Bruxelles da proporre; nessun partito ha espresso un’idea per come sfruttare al meglio le possibilità della dimensione continentale; nessun politico visionario è riuscito a mettere insieme una convincente metafora dell’Europa per gli elettori. Nel 2014, invece, lo scenario era l’opposto. Ve lo ricordate? C’era la sensazione di essere davanti a una grande possibilità, quella di rimettere davvero la politica al centro del discorso. E l’Europa, dopo gli anni della commissione Barroso, della politica del sacrificio e dei tagli, della macelleria sociale verso la Grecia, sembrava davvero pronta al cambio di passo verso una maggiore integrazione in senso federale. C’era uno scontro tra visioni alternative: la propaganda dei socialdemocratici di Martin Schulz si opponeva comunque alla linea di continuità cristianodemocratica di Jean Claude Juncker (opposizione poi smentita dai fatti della Große Koalition che ha governato nell’ultima legislatura europea). Soprattutto, la candidatura di Alexis Tsipras aveva rimesso al centro del dibattito parole chiave come “uguaglianza” e “diritti” e portando nel mainstream l’argomento della critica radicale al capitalismo.
Il braccio destro di Alexis Tsipras in quel periodo era Yanis Varoufakis. Ministro dell’Economia molto critico con l’idea dei compromessi con la troika (è stato lui infatti il sacrificato sull’altare della trattativa tra Europa e Grecia nel 2015), che da quando ha lasciato gli incarichi di governo, si è dedicato a costruire l’idea di un “terzo spazio” politico oltre la contrapposizione establishment/populismo dove potesse nascere una sinistra alternativa, rinnovata nelle pratiche di partecipazione e nell’elaborazione culturale. Da qui l’intuizione di creare un partito transnazionale, Diem25, con cui correre in ogni paese. La storia poi è andata diversamente, e Diem25 si candida alle elezioni dentro altre liste solo in Portogallo, Spagna, Grecia, Francia, Belgio, Danimarca, Belgio e Germania. Ma è attorno a questa idea di transnazionalità della politica che si costruisce la riflessione che Lorenzo Marsili (che di questo movimento è stato tra i fondatori e che con Varoufakis ha scritto anche un libro chiamato proprio Il terzo spazio), sviluppa nelle pagine de La tua patria è il mondo intero (Laterza). Un libro che parte proprio dalla presa di coscienza di come la politica, per affrontare le sfide del futuro — dalla crisi climatica all’automazione del mondo del lavoro, ma anche un più generale impoverimento degli strumenti di tenuta democratica — non solo non debba più chiudersi dentro i confini nazionali, rilanciando quindi la sfida su contesti più allargati, ma costituirsi dentro esperienze capaci di andare oltre le politiche locali e diventare sempre più transnazionali.
Questa idea di una politica “del mondo e per il mondo” rappresenta anche una delle più forti proposte alternative al montante nazionalpopulismo che farà il pieno alle prossime elezioni
La dimensione, per Marsili, non è più nemmeno quella di una nuova “internazionale” (termine attorno al quale è dedicata una lunga sezione per spiegarne i pro e i contro), ma quella di una effettiva “cosmopolitica”. Una mondializzazione delle strutture di partecipazione. Ideare movimenti su larga scala capaci di far sì che le istanze necessarie a mantenere (o forse sarebbe meglio dire “rendere di nuovo”?) il nostro pianeta tutto sommato abitabile diventino istanze buone in tutto al mondo. Da qui l’idea di imparare davvero da Greta Thunberg come pratica, azione e sensibilizzazione e rendere il tutto atto politico sia nel senso di politics, che nel senso di policies. Legandosi a un’idea che è stata ben spiegata da Alex Williams e Nick Srnicek in Inventare il futuro, lo scarto del movimento Fridays For Future rispetto agli altri conglomerati di severa critica al capitalismo (ad esempio Occupy), sta proprio nell’aver evitato la dimensione della “folk politics”, cioè il ripiegamento nei bisogni minimi di comunità limitante e forse anche immaginate, e puntato al bersaglio grosso. Consapevoli che non è più il confine di una persona singola, non è più il confine di uno stato, non è più nemmeno il confine di un continente. Ma, appunto, il mondo.
Una politica “mondiale” che risponde alla crisi della globalizzazione (con il capitale mobile e sempre più immateriale; con le big tech che sfruttano dati ed estraggono valore sradicando le persone dallo spazio e dal tempo) e rimette la partecipazione al centro del processo democratico. Questi anni di profonda crisi ci hanno insegnato che i corpi intermedi servono come membrane per tenere in piedi proprio l’assetto della nostra società. Costruire un nuovo paradigma capace di segnare uno scarto con questo lunghissimo postmoderno realizzato (dove il nostro vivere quotidiano è sospeso tra la Fine della Storia, la postdemocrazia e il dataismo di cui parla Yuval Noah Harari nel suo recente fortunatissimo Homo Deus) può essere un progetto ambizioso — e per qualcuno velleitario — ma questa idea di una politica “del mondo e per il mondo” rappresenta anche una delle più forti proposte alternative al montante nazionalpopulismo che farà il pieno alle prossime elezioni. Si riparte da qui, dal mondo come unica patria possibile per il futuro. Cercando di superare l’età della rabbia, della paranoia e del risentimento con una nuova utopia e un nuovo pensiero radicale capace, in tutto il mondo, di farsi forza egemone e azione politica quotidiana.