Oro bluPetrolio, oro e coltan: ecco perché il Venezuela interessa a tutti

Il Venezuela è il paese più ricco di petrolio al mondo. Ma non solo. Le riserve d’oro è quelle di coltan, il materiale con cui si producono le batterie degli smartphone, lo rendono un vero eldorado energetico. Il problema è che, di questo passo, al popolo venezuelano non rimarrà niente

Basta scavare un po’, appena sotto la superficie fittizia. Il tanto che serve per capire che il vero interesse non è il Venezuela in sé, bensì quello che c’è sotto. Dentro le miniere, a largo delle coste caraibiche, oppure tra la schiuma del lago Maracaibo. La crisi che sta dilaniando il Paese sud americano – lungi dal fare cospirazionismo! – lancia sicuramente chiari messaggi, misti a déjà-vu, di un’ingerenza non proprio disinteressata delle grandi potenze mondiali.

Il Venezuela, è bene ricordare, con 300,9 miliardi di barili di riserve, è il paese più ricco di petrolio al mondo. Ma non solo. Le riserve d’oro lo piazzano tra i primi 10 paesi del Sud America, mentre le scorte di coltan scoperte in questi ultimi anni lo spingono appena sotto al Brasile e all’Australia, impegnate nel contendersi il primato con i paesi africani.

Quest’ultimo è considerato il petrolio 4.0: non è rinnovabile, costa molto ed è parte integrante della nostra società. La columbite-tantalite, o coltan, viene infatti utilizzata per la costruzione di turbine aeronautiche, per la produzione missilistica e nucleare, nel campo della telefonia mobile come ingrediente fondamentale per la batteria di cellulari, cerca-persone, personal computer, videogame e infine in medicina, in quanto alcune apparecchiature per funzionare necessitano dei microcondensatori al tantalio.

La presenza in quantità poco elevate di uranio lo rende inoltre un materiale radioattivo, in grado, a margine di un contatto prolungato, di provocare tumori e problemi respiratori. Questo pilastro dell’industria elettronica, si trova in particolare nella Repubblica Democratica del Congo, Rwanda, Australia e in Brasile (dove si stima una quantità pari al 57% del totale mondiale). Casualmente, però, in questi ultimi anni anche il Venezuela di Nicolás Maduro si è scoperto giacimento di questo minerale preziosissimo (dai 2 dollari al kg di fine anni ’90 a circa 300 degli ultimi anni), intorno al quale è stato ben presto edificato il più grande impianto di estrazione dell’America Latina. Con una lavorazione giornaliera di 160 tonnellate di “oro blu”, nel 2018 le previsioni del ministro Víctor Hugo Cano annunciavano un ammontare netto di 7,8 milioni di dollari “todos los días”, dritti dritti nelle casse dello stato.

In altri termini, il re è nudo: e se Maduro è ancora in sella, lo deve solo alla Cina e alla Russia. Il sostegno di quest’ultimi, infatti, non è un evento straordinario, in quanto da circa 15 anni entrambi sono i principali “strozzini” del regime di Caracas

Insomma, un Paese del genere farebbe gola a chiunque. E così, di fatto, sta accadendo. Perché se a Caracas le squadre in campo, da una parte Maduro con Turchia, Cina e Russia e dall’altra l’autoproclamatosi presidente ad interim Juan Guaidó con alle spalle gli Stati Uniti di Trump e gran parte dei Paesi membri dell’Unione, si stanno contendo le redini della Nazione, la partita per il dominino sotterraneo si è già decisa da tempo.

La Casa Bianca, subito pronta a legittimare Guaidó con lo stile con cui sobillò per il golpe cileno a fine anni ‘90, porta con sé una cronologia fitta di sanzioni: a partire proprio da quelle dirette alle compagnie di oro e petrolio della Nazione. Un attentato ai cardini dell’economia venezuelana (o a quel che ne resta) aggravata dal “no way” ricevuto dalla Banca d’Inghilterra per il ritiro di 1,2 miliardi in oro, che tuttavia non hanno impedito a Maduro la resa incondizionata agli altri contendenti alla corte.

In altri termini, il re è nudo: e se Maduro è ancora in sella, lo deve solo alla Cina e alla Russia. Il sostegno di quest’ultimi, infatti, non è un evento straordinario, in quanto da circa 15 anni entrambi sono i principali “strozzini” del regime di Caracas. Soldi elargiti per due distinte ragioni. Il Vladimir Putin che conosciamo, ha tra i suoi obiettivi più longevi quello di sigillare una bandierina sul “giardino” americano, alimentando un’influenza anti-Usa nei paesi tradizionalmente rossi, come Cuba, Bolivia, Nicaragua e, per l’appunto, Venezuela.

Per la superpotenza orientale, invece, è questione di materie prima. Le nuove vie della seta hanno un cuore digital: la Cina sostiene da anni il debito di paesi in difficoltà per ricavarne materiale prezioso, come per esempio il coltan. Nondimeno, Pechino è da sempre la meta prediletta dell’export petrolifero venezuelano (nell’ultimo periodo forse l’unica), come spiega a Linkiesta.it Loris Zanatta, professor ordinario di Scienze Politiche all’Università di Bologna: «Il principale partner del Venezuela è la Cina, che in questo momento si sta comprando il petrolio per il futuro a prezzo stracciato. Caracas si sta svendendo a Pechino per mantenere in piedi il regime, cioè sta vendendo la vita dei venezuelani del futuro per mantenere Maduro al potere».

Esperto delle governance sudamericane, Zannata puntualizza: «Il Venezuela è un grande produttore di petrolio dagli anni ’30, con regimi politici che ne hanno nazionalizzato la proprietà ancor prima di Chavez. Il Paese pertanto si trova in questa drammatica situazione perché semplicemente ha fatto delle politiche, quando aveva le casse piene di un petrolio che si vendeva a 100 dollari al barile, di tipo populista: ovvero distribuendo ricchezze che non produceva».

Mentre lontano dalle piazze si sta decidendo una sfida fondamentale per il futuro delle risorse energetiche, come in precedenza è bene ricordare, che in quelle stesse piazze le persone ogni giorno perdono la vita

La profonda crisi economica, provocata dal malgoverno socialista prima di Hugo Chavez e poi di Maduro, ha reso inerme il Venezuela. Giacimenti di petrolio, la cui estrazione è gestita dalla società statale PDVSA (capace di garantirsi generatori per continuare a estrarre greggio nel momento in cui l’intero Paese era paralizzato dal blackout), nei bacini di Maracaibo, Barinas, Anzoátegui, Monagas, Delta Amacuro, Falcón e Guercio sono cartucce bagnate. Il potere d’acquisto è crollato, facendo schizzare alle stelle il tasso di povertà: circa il 90% della popolazione, con un tasso di omicidi pari a 90 su 100 mila abitanti (l’Italia ha 0,9 su 100 mila abitanti).

Non sono bastati, pertanto, i prestiti di Madre Russia (4 miliardi di dollari e 400 mercenari del contingente Wagner per tutelare il protetto) e del governo di Xi Jinping (dal 2005 a oggi, circa 62 miliardi di dollari, scaglionati in 17 prestiti,12 dei quali diretti al settore petrolifero) a salvare la baracca. Questo brago paleosocialista – visto che in circa 10 anni la quota dell’economia gestita dai privati è salita dal 65 al 71% – sta portando alla deriva uno dei paesi più ricchi al mondo, in termini di risorse. E mentre lontano dalle piazze si sta decidendo una sfida fondamentale per il futuro delle risorse energetiche, come in precedenza, è bene ricordare, che in quelle stesse piazze le persone ogni giorno perdono la vita.

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