Campioni veriAltro che i simulatori di oggi. Ecco chi era Meazza, l’Achille del calcio italiano raccontato da Gianni Brera

Quarant'anni fa moriva Giuseppe Meazza, la bandiera dell'Inter vincitore di due mondiali di calcio negli anni Trenta. Il necrologio di Gianni Brera che lo considerava il vero inventore del calcio italiano

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Agli esordi veri del calcio italiano c’è lui, Giuseppe Meazza detto Peppino o “Peppìn”, icona milanese dell’estro nazionale. Con l’Inter – allora Ambrosiana-Inter – si inventò un calcio che prima non c’era, segnando barche di gol (227 in 315 apparizioni), vincendo tre campionati italiani. Con la maglia azzurra ottiene due Coppe Internazionali e due Mondiali di calcio, quello del 1934, in Italia, e del 1938, in Francia. In sostanza 33 gol in 53 partite. Quando il calcio era omerico, Meazza – a cui fu intitolato lo stadio milanese – faceva Achille. Morto quarant’anni fa, dopo lenta agonia nell’oblio, figura di un altro tempo, fu celebrato da Gianni Brera in un articolo che a dire di molti è il più bello del giornalismo italiano. Uscito su “il Giornale” il 24 agosto 1979, stimolò le lacrime di quella pietra di Montanelli. Fu pubblicato con il titolo “Peppìn Meazza era il fòlber” e ora fa sfoggio di sé, come emblema del giornalismo di genio, nel catalogo della mostra “Piccoli tasti, grandi firme. L’epoca d’oro del giornalismo italiano (1950-1990)”, a cura di Luigi Mascheroni (La Nave di Teseo, 2019), in atto, fisicamente, al Museo Civico ‘Garda’ di Ivrea fino a fine anno. Si ringrazia per la possibilità di replicare questo articolo, stupefacente. Un modo, pure, per onorare Brera, il Meazza del giornalismo, che nasce 100 anni fa, l’8 settembre, a San Zenone Po.

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Gianni Brera, cantore del calcio, giornalista di genio, è nato 100 anni fa

È morto a Lissone Peppìn Meazza. Se n’è andato in silenzio, vergognoso di morire come si dice dei gatti, alla cui specie sorniona apparteneva. Era da tempo malato. Un chirurgo amico, Minolo Pizzagalli, gli aveva dovuto asportare mezzo pancreas e mal volentieri parlava, poi, della sua sorte più o meno vicina. Oltre a quello, soffriva di disturbi circolatori. Sulla sua faccia gonfia affioravano vene di color rosso plumbeo. Gli occhi grandi, bovini, parevano costantemente assonnati. Pesanti palpebre calavano le lunghe ciglia a proteggere lo sguardo non timido ma talora impacciato e sfuggente. La voce gli si rompeva in gola come se una spossatezza greve negasse d’improvviso il fiato necessario ad alimentarla. Insomma, faceva tanta pena da indurre gli amici a ribellioni di puerile insofferenza e perfino di rabbia. Perché vederlo sfiorire a quel modo era come dover riflettere sui nostri anni perduti, sulla fine più o meno vicina di tutti. E non c’è nulla al mondo che dispiaccia di più alle povere ciolle che noi siamo. Ora il Peppìn è morto. Se n’è andato in silenzio, sapendo benissimo perché la moglie lo aveva portato a Rapallo in primavera. Dovevo preparargli per tempo il “coccodrillo” e non avevo cuore. Con il dovuto cinismo gli ho telefonato a Monza: mi ha risposto già dalla tomba: “Sto ben, sto ben (come se indignato domandasse: chi te l’ha detto che muoio?): propi incoeu vo a Rapallo”. E ancora una volta gli fui grato di una notizia che mi risparmiava l’odiosa incombenza di caragnare in anticipo. Nulla di più imbarazzante, nulla di più vile. Al diavolo voi che vorreste chiudere le pagine ancor prima che siano scritte! Ma ora Peppìn è morto per davvero, e ricordarlo bisogna, dire chi era, che cosa ha fatto, e cercar di non piangere perché sarebbe falso: nessuno crederebbe che piangi per lui. Contela giusta, Gioânn: col Peppìn è passata la tua vita.

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E allora, via, parliamone come di un fenomeno che poco poco ha inciso sul nostro costume. Personalmente, ho finito addirittura per giocare con lui, ormai facevamo ridere entrambi; ma chiunque, ragazzino, abbia pedatato negli anni trenta, almeno per un istante, un’ora, un anno ha provato a mitizzare se stesso nel suo nome. Perché Peppìn Meazza è il football, anzi “el fòlber” per tutti gli italiani. Grandi giocatori esistevano al mondo, magari più tosti e continui di lui, pero non pareva a noi che si potesse andar oltre le sue invenzioni improvvise, gli scatti geniali, i dribbling perentori e tuttavia mai irridenti, le fughe solitarie verso la sua smarrita vittima di sempre, il portiere avversario. Era nato nel 1910, di fine agosto, a Porta Vittoria, non so in quale via. Sua madre aveva nome Ersilia e veniva da Mediglia, nella Bassa di Lodi. Faceva la verduratta, che era allora povero mestiere: lo chiamava “Peppino”, secondo l’italiano storpiato dai lombardi: e tutti gli altri, Peppìn, e magari anche “Pepp”, che è tanto bello e veloce, ma screditato ormai dalle pochades d’osteria. Porta Vittoria non finiva già al monumento delle Cinque Giornate, proseguiva per la campagna ricca di fossi e di fontanili. Quando si preparava il cantiere per una casa nuova, si faceva sgombro uno spiazzo e in quello giocavano al fòlber i fiolett della zona.

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