Da quasi un anno ci manca Guido Ceronetti, questo vagabondo del linguaggio, un flâneur dell’anatema, lo immagino come una figura di Matisse, che vola tra questo e altri mondi, con folgore e tenerezza. Cinque anni fa, il 21 dicembre 2014, Giuseppe Di Leo realizza per Radio Radicale una bella intervista a Ceronetti, a partire dall’epistolario intrattenuto con Sergio Quinzio, pubblicato da Adelphi come “Un tentativo di colmare l’abisso”. Le parole di Ceronetti sembrano venire da fioriti abissi, hanno una lucidità arcaica. Qui sbobino alcuni passaggi, degni di meditazione. (d.b.)
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A 16 anni fui folgorato da Qohelet. «C’era un chiosco di Bibbie che compariva alle fiere sotto i portici di Torino, dove mi fermavo, ero diventato amico del proprietario, era un chiosco della Società Biblica di Ginevra, con una quantità enorme di traduzioni. Ne comprai una, ogni tanto passavo di lì. Avevo 16-18 anni, era subito dopo la guerra. Mi innamorai di un testo di cui ancora sono debitore, il Qohelet, che mi ha attirato molto. Quando ho cercato qualcuno che mi impartisse lezioni di ebraico per avvicinarmi di più al testo, ho chiesto di esercitarmi e di essere avviato allo studio sul Qohelet, di cui feci una versione interlineare: la prima di una quindicina. Il rabbino mio maestro non amava molto quel testo, sentiva odore di epicureismo: Dio, d’altronde, vi era introdotto a forza, probabilmente con interpolazioni. Non lo amava ma non poteva evitare di insegnarmelo».
La Bibbia è tutto. «No, non si può essere uomini ‘di cultura’ senza conoscere la Bibbia, direi di no. Rudolf Bultmann diceva della stranezza di questo testo, la Bibbia, che nega ogni cultura e produce ogni cultura». I profeti? Politici disastrosi. «I profeti propongono una politica disastrosa. I profeti ti indirizzano male, perché indirizzano secondo la loro visione e il loro raptus di delirio. Non insegnano buona politica, non c’è nessun Machiavelli o Guicciardini tra i profeti».