Che bello sarebbe se in Italia i talenti dei ricercatori universitari venissero almeno tutelati con il rigore e la dedizione con cui X Factor e vivai tutelano cantanti e calciatori. Invece tra i Paesi OECD l’Italia ha il più grande deficit (entranti-uscenti) di ricercatori, una grave perdita di competitività per il sistema Paese di cui Giuseppe Conte dovrebbe ricordarsi, non per somministrare ricette salvifiche, ma per offrire un argine alla lettura propagandistica dei fatti, per non arrendersi alla piatta litania del «non c’è alternativa» che ha portato alla formazione del disastroso governo gialloverde, e per allentare, con il potere della condivisione di informazioni, studi ed esperienze, la diffidenza che ha sfilacciato il tessuto sociale. Scampato (per ora) il pericolo dell’ultima coalizione, non si pretende l’introduzione di una visione taumaturgica dello studio, ci si accontenta che non sia demoniaca e che le strade tornino a fare le strade, non le università.
Per un Claudio Borghi che, senza mai avere intrapreso un dottorato né avere svolto alcun tipo di ricerca, derideva gli studiosi e ammetteva non senza presenza scenica di essersi accostato all’economia monetaria dopo che un giorno, al mare, si era imbattuto in un servizio al telegiornale sulla crisi greca, c’era (e qualcuno ipotizza che ci sarà anche nel prossimo governo) un Lorenzo Fioramonti, capace di fare proprio il detto «mentire sapendo di mentine». Come quella volta, a dicembre, in cui dichiarò di «aver chiesto aumenti per il fondo ordinario e aver accresciuto a più di 2000 le stabilizzazioni di ricercatori precari negli Enti pubblici di Ricerca, oltre ad aver assicurato 30 milioni in più l’anno al CNR», mentre sapeva benissimo che l’assunzione a tempo indeterminato dei 2170 precari da almeno tre anni in servizio negli enti pubblici di ricerca era merito della precedente riforma Madia della pubblica amministrazione, resa possibile con l’emendamento alla Legge di Bilancio del governo Gentiloni, cui all’epoca il Movimento 5 stelle per altro si oppose. Un governo del genere sarebbe stato capace di tutto, perché i suoi componenti erano capaci di tutto.
Da recenti indagini Istat è emerso che chi è andato all’estero fa un lavoro più in linea con quanto ha studiato e l’88% continua a occuparsi di ricerca e sviluppo contro il 66% di chi è rimasto
Vero è che alcuni atenei e in particolare alcune facoltà hanno la colpa di avere usato per anni i concorsi da ricercatore a tempo determinato inaugurati dalla Legge Gelmini per blindare il reclutamento a favore di specifici interni e lacchè dei baroni. Regole concorsuali del tutto inadeguate ai tempi che causano problemi, rendono fittizie le sane competizioni, e limitano ogni opportunità di sviluppo.
È pur altrettanto vero però che in Italia il dottorato sortisce pochi effetti sui datori di lavoro, e forse non è un caso che da recenti indagini Istat è emerso che tra coloro che hanno conseguito il dottorato nel 2012 e nel 2014, a quattro e a sei anni, chi è andato all’estero fa un lavoro più in linea con quanto ha studiato e l’88% continua a occuparsi di ricerca e sviluppo contro il 66% di chi è rimasto. Come forse non è un caso che di questi il 43% sia impegnato in ambito accademico contro il 24% di chi è rimasto in Italia. Nel nostro Paese non si fa ricerca né dentro né fuori le accademie, perciò il settore della ricerca pubblica e privata registra una quota di occupati all’estero superiore di 11 punti percentuali a quella nazionale.
La propaganda gialloverde ha insistito a dire di avere aumentato i fondi per le università, il più delle volte guardandosi bene dallo specificare che si è trattato di un aumento pari all’1,7% rispetto all’anno scorso: dai 7,327 miliardi del 2018 si è passati ai 7,450 attuali, per un totale di 113 milioni, molti dei quali vincolati all’approvazione di progetti specifici a uso esclusivo dei dipartimenti cosiddetti d’eccellenza. Una dote di risorse, come osservato dal CUN (Consiglio Universitario Nazionale) «non ancora sufficiente per gestire le esigenze del sistema dell’istruzione superiore e della ricerca, così da poterne garantire il corretto funzionamento, anche in un’ottica di comparazione internazionale».
Che l’Italia investa invece solo l’1,33%del PIL contro una media europea del 2,03 suscita tutt’al più uno sbadiglio
Eppure avevano promesso di riportare i finanziamenti delle università ai livelli del 2009 di circa 7,5 miliardi. Avevano anche promesso di aumentare il FOE (Fondo Ordinario per il finanziamento degli Enti e Istituzioni di ricerca) un fondo più piccolo, destinato agli istituti di ricerca, che dal 2013 subisce costantemente tagli. Promesse piccole, modeste, che tuttavia non sono state mantenute.
«Ce lo impone l’Europa» dicevano. Ove mai si dovesse prolungare il blocco delle assunzioni in ambito universitario oltre la scadenza del 2020 per recuperare i 23 miliardi necessari a scongiurare l’aumento dell’Iva, la colpa ricadrebbe ancora sull’Europa, naturalmente. Quando Rosa Maria Dell’Aria, l’insegnante di Palermo “rea” di non avere vigilato sul lavoro di alcuni suoi studenti che accostavano le leggi razziali al “decreto sicurezza” di Matteo Salvini, l’opinione pubblica giustamente si indignò. Che l’Italia investa invece solo l’1,33%del PIL contro una media europea del 2,03 (fonte Eurostat) e che il numero dei suoi ricercatori sia inferiore in rapporto alla popolazione (4,73% contro la media del 7,40 fra i Paesi dell’eurozona, dati OECD) invece suscita tutt’al più uno sbadiglio. Come fosse domenica senza X Factor e partite di calcio.