Dall’altoDietro la violenza, la verità: così Daniele Vicari racconta l’inferno della morte di Emanuele Morganti

Nel romanzo-reportage il regista italiano mette a nudo la storia del giovane ucciso ad Alatri, in provincia di Frosinone, in una serata allucinata di follia e violenza

da Wikimedia Commons (modificata)

Il Free Solo è una forma estrema di arrampicata. Alex Honnold l’ha svelata al mondo in un documentario terribile e struggente, un’epifania all’incrocio tra l’ossessione, la ricerca della perfezione e la fuga dall’inadeguatezza. Nel Free Solo si arrampica senza corde né imbragature, con la forza delle mani, la trazione delle dita e la spinta dei piedi.

Non c’è rete, cadere significa morire, sempre. Honnold risponde con candore alle domande obbligatorie, quelle sulla paura, su come si possa affrontare una disciplina in cui non esiste margine di errore e l’unica prestazione a garantire la sopravvivenza è la salita perfetta, aggrappato a invisibili spuntoni di roccia, protuberanze insignificanti che d’improvviso diventano fondamentali. Dettagli curati con scrupolo, ripetuti all’infinito, temuti e amati.

Honnold dice che dove gli altri vedono la morte lui vede una possibilità, quella della perfezione.
Quella della verità.

Daniele Vicari è un regista, il più coraggioso della sua generazione. Vicari conosce il cinema e si è imposto di usarlo come strumento, come grande lente di significato. Daniele Vicari conosce i dettagli. Diaz è un film monumentale grazie alla capacità di sopportazione di Vicari, alla sua forza di volontà, alla ferma risoluzione di non girare la camera, di continuare a guardare.

Perché oltre l’iperrealismo c’è la verità e non è la narrazione lo scopo di Diaz, piuttosto l’esposizione, l’ostensione dell’indicibile, l’analisi continua di ogni fatto. Scomporre, guardare dentro al cono dell’orrore freddo, ricomporre e poi ancora. Daniele Vicari è un arrampicatore e arriva dove altri si fermerebbero, sa guardare quando tutti distolgono lo sguardo perché è troppo, troppo grande la pena e lo strazio.

La forza di Vicari è la sua condanna, il suo strumento è l’ossessione, proprio come Honnold.
Arrivare in cima, costi quel che costi.
Arrivare in cima per capire, per capirsi.

Vicari conosce la famiglia di Emanuele e ha accesso a una storia che lo strazia così come strazia centinaia di migliaia di italiani

Due anni fa Emanuele Morganti fu ucciso ad Alatri. Lo picchiarono a morte, una via crucis di stazioni allucinate, i volti deformati dei predatori, quello incredulo della vittima. Emanuele fu ucciso in una piazza affollata, per noia, per tracotanza, per marcare il territorio, per deturpare il bello.

Un ventenne che amava la montagna, il silenzio, un fiore nel deserto di pietra. Lo picchiarono senza motivo, lo finirono con una violenza disumana e fredda, quella dei predatori, senza emozione e nemmeno rabbia.

Vicari conosce la famiglia di Emanuele e ha accesso a una storia che lo strazia così come strazia centinaia di migliaia di italiani. Una storia che per gradi di separazione è diventata la sua e poi la nostra, quella di chi è padre ed è figlio.

Di lì è iniziata la sua arrampicata, quella più dolorosa sulla parete gelida della rabbia, del risentimento, degli errori e della morte.
Ha scritto un libro Vicari, pagine dense e preziose, Emanuele nella battaglia. «Qualcuno la chiama in modo generico “provincia” ma, in alcune zone del Paese, quel mondo può diventare una sorta di aldilà».

Quando arrampichi non c’è arte, non esiste la possibilità della finzione. In parete ci sono lucidità, coscienza ed euforia. Vicari lo sa, mette in fila nomi e fatti, contiene la furia, la lascia galleggiare lontano, non cede alla tentazione. Non sposta la camera. Non usa le corde e gli strumenti rassicuranti della narrativa.

Emanuele nella battaglia (Einaudi editore), è un libro importante per capire chi siamo, cosa siamo diventati, quanto sia pericoloso quaggiù, quanto sia importante arrampicarsi e guardare dall’alto, da dove violenza, micro e macro criminalità, crudeltà e omertà sembrano tanti puntini uniti da un tratto unico, riconoscibile e tanto più netto quanto più si sale, una figura geometrica che si chiama Italia.

Un lavoro fondamentale per ciò che mostra senza chiedere al lettore di aderire a una teoria, lasciandogli lo spazio del respiro e dell’angoscia.

Una delle scene più potenti e terribili di Shoah è quella in cui Lanzmann inquadra un campo verde, l’erba alta scossa dal vento, un prato dove un tempo stavano le baracche del campo di concentramento. Dire l’indicibile. Vicari lo scrive.

La gita in montagna di Emanuele e Federico, liberi nel silenzio e nelle infinite possibilità della vita è l’indicibile, la bellezza più straziante, il ricordo di quel che eravamo, che potremmo essere, che non saremo.

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