Quando quel pomeriggio di novembre il mediano di Mauthausen entrò sul terreno di gioco non riusciva quasi a reggersi in piedi. Era esausto, pallido in volto, pesava poco più di 40 chili e aveva dolori dappertutto, quasi da non riuscire a dare una priorità alla sofferenza più urgente. Indossava una strana divisa a righe verticali, diversa, palesemente diversa da quelle dei suoi occasionali ed euforici compagni di squadra.
In passato, per giocare a football, aveva vestito casacche a strisce verticali dei colori più innocui o sgargianti, adesso, però, quella strana uniforme aveva un aspetto inquietante e pesava quanto una interminabile vita intera.
Tutti sorridevano intorno a lui, tutti urlavano con ingiustificata superbia, l’uno sull’altro, quella orribile lingua inquisitoria e dal sapore metallico, di cui ormai aveva imparato a riconoscere il suono macchinoso e violento, simile a quello di un tamburo che non la smette un secondo di sbatterti dentro il suo ciclico frastuono, colpendo le poche ossa che, chissà per quale inutile mistero, riescono ancora a tenerti in piedi.
Il mediano di Mauthausen in quello strano e freddissimo pomeriggio di novembre rivide un pallone dopo anni di chissà cos’altro, ma non seppe bene cosa farsene. In quel momento gli sembrò un oggetto quasi sconosciuto, ostile. Forse in un tempo non troppo lontano avrebbe avuto la forza e la voglia di calciarlo in avanti e corrergli dietro come un pazzo innamorato.
Ma ora non più.
Ora, di quella folle partita, nessuno, lui per primo, avrà voglia di ricordare un solo dettaglio, un solo tiro in porta, un solo gol. Di quella partita surreale, forse rimarrà soltanto il silenzio o un rimbombo sordo e spaventoso, capace di annientare persino l’ultimo sogno che resta: uscire vivi da quel campo maledetto, uscire vivi da quel campo maledetto…
Un campo circondato di neve, di fango, di cani addestrati alla rabbia, di baracche, di enormi mura in pietra e di reti iniettate di una corrente elettrica velenosa. Un campo di odio travestito ipocritamente da terreno di gioco.
E allora è meglio che la tua partita finisca qui. È meglio lasciare in quel posto il mediano che hai dentro e trascinare il tuo destino verso l’ultimo pezzo di strada. È più conveniente liberare per sempre i ricordi e la malinconia. Fa soffrire meno.
Lasciali andare i ricordi, lasciali lì, che tanto qualcuno prima o poi li ritroverà e proverà a immaginarli e a raccontarli con i tuoi occhi.
Resta fermo nella tua posizione, mantieni il tuo ruolo di centromediano come sei capace solo tu lì in mezzo, e fai il minimo indispensabile per non crollare, per non far capire agli altri giocatori-soldati di questa stupida competizione che stai crollando, per l’ultima volta.
Lasciali giocare in pace, beati loro, fino al triplice fischio finale. E poi, che vada come deve andare.
da: Il mediano di Mauthausen, di Francesco Veltri, Diarkos editore (2019)