Per gli editori francesi, l’inizio di novembre è uno dei momenti più importanti dell’anno. Lunedì viene assegnato il Prix Goncourt, il più importante premio letterario del Paese. Subito dopo – in senso letterale, l’annuncio viene dato nello stesso storico ristorante Drouant – viene proclamato anche il vincitore del premio Renaudot. Martedì tocca al premio Femina, in cui la giuria è composta da sole donne, e venerdì si chiude con il premio Le Médicis, il cui annuncio verrà dato al ristorante Le Méditerranée, di fronte all’Odéon.
Oltre a una questione di gloria (innegabile, per quanto contestata) c’è anche un fatto di soldi. Vincere un premio, e soprattutto il Goncourt, significa vendere tantissimo. All’autorevolezza del riconoscimento si aggiunge, non a caso, la fortuna del timing: posizionato all’inizio di novembre, dà il via alla cavalcata commerciale che culmina nel periodo natalizio. Considerazioni materiali, certo. Ma i numeri sono sempre i numeri. E i conti alla fine qualcuno li deve pur fare.
Quest’anno, poi, c’è una cifra in più: il centenario. Il Goncourt celebra i 100 dall’assegnazione del premio a Marcel Proust per il romanzo All’ombra delle fanciulle in fiore secondo volume della Ricerca. Per ricordare la ricorrenza i giudici hanno proclamato la lista dei quattro finalisti – quelli che hanno superato la terza selezione – dalla cittadina di Cabourg, in Normandia, quella che, secondo i critici, corrisponderebbe all’immaginaria Balbec descritta nella Recherche. Un omaggio. La prudenza però suggerirebbe di fermarsi qui, con i simbolismi: perché la nostalgia non fa mai bene, in primo luogo. Ma anche perché a qualcuno potrebbe venire in mente di confrontare il vincitore di ieri con i candidati di oggi. E si leverebbero le consuete lamentele sullo stato delle lettere nazionali.
Sono passati ben 20 da quando, nel 1999, la rivista Lire sottolineava in modo lapidario il problema del Goncourt. Che, nonostante tutto, «raramente incorona il miglior romanzo dell’anno».
A contendersi il titolo c’è, in prima fila, Amélie Nothomb. La scrittrice belga, vera e propria macchina di bestseller (almeno 18 milioni di copie vendute in tutto il mondo), si presenta con il suo Soif (pubblicato da Albin Michel), in cui si immagina nel ruolo di Gesù prima della crocifissione e che ha già toccato quota 150mila copie. Il suo avversario principale, a detta degli esperti francesi, sarà Jean-Paul Dubois, autore quasi settantenne dalla vita privata molto discreta, e il suo Tous les hommes n’habitent pas le monde de la même façon (L’Olivier). Meno probabile la vittoria di Jean-Luc Coatalem, 60 anni, scrittore, giornalista, narratore di viaggio, per La part du fils (Stock), che comunque è anche tra i candidati al premio Renaudot. Il quarto è Olivier Rolin, 72 anni che gareggia con Extérieur monde (Gallimard). Vale la pena notare che, in via del tutto eccezionale, non figura tra i finalisti (nemmeno tra i 15 iniziali) nessun autore della celebre casa editrice Seuil. A fare le sue veci, però, c’è L’Olivier, che da qualche anno appartiene alla stesso gruppo editoriale.
Se vincesse Amélie Nothomb sarebbe senza dubbio un evento – e, per lei, una grande gratificazione, visto che in tanti l’hanno indicata, negli anni, come una delle tante vittime della cultura maschilista dell’Accademia del Goncourt. Forse, dopo tante denunce, le cose cambieranno.
Del resto, lamentele e contestazioni sono da sempre una musica di accompagnamento del premio. Se si guarda agli anniversari, salta all’occhio che a parte quello di Proust, ce ne è un altro, molto importante ma per ragioni diverse: sono passati ben 20 da quando, nel 1999, la rivista Lire sottolineava in modo lapidario il problema del Goncourt. Che, nonostante tutto, «raramente incorona il miglior romanzo dell’anno».
È noto che nel 1932 i giudici bocciarono Viaggio al termine della notte di Louis Férdinand Céline per far vincere Les Loups di Guy Mazeline, unica cosa per cui questo scrittore è rimasto famoso. Ed è noto anche che, tra gli esclusi, figurano personaggi illustrissimi come Guillaume Apollineare, o Jean Paul Sartre, André Gide, Marguerite Yourcenar, Jean-Marie-Gustave Le Clézio. È un fatto inevitabile: gli errori di giudizio, nel mondo delle lettere, sono comunissimi. Soprattutto quando l’obbligo è di scegliere, tra le tante di un unico anno, un’opera sola. Senza contare le pressioni degli editori, quelle dei giornalisti e – cosa non da poco – quelle delle giurie degli altri premi. Insomma, azzeccare il nome giusto, anche quando si vuole, è un’impresa titanica. A volte riesce, a volte no. Cento anni fa andò bene. Ma in quel caso era difficile sbagliare.