Immaginate un paese in cui la dittatura fascista sia durata non fino al 1943, come da noi, ma fino al 1975 – quando, in Italia, si parlava già da un paio d’anni del compromesso storico lanciato da Enrico Berlinguer – e sia durata fino ad allora semplicemente perché quello è l’anno in cui il dittatore è morto, per cause naturali, nel suo letto, ancora al potere. Immaginate che in un paese così, adesso, un politico di estrema destra parli ai suoi sostenitori della «dittatura del politicamente corretto dominata dai progressisti» che li ha oppressi fino a quel momento, perché capace di ridurli al silenzio, ogni volta, semplicemente con un insulto, uno stigma con cui delegittimarli.
«Voi che amate il vostro paese: fascisti! Voi che volete difendere le frontiere spagnole, le pareti di casa vostra: xenofobi… e fascisti! Voi che non accettate che si criminalizzi metà della popolazione per il suo sesso con le leggi totalitarie dell’ideologia gender: maschilisti… e fascisti!». Si tratta di un comizio dell’anno scorso, ma potrebbe essere dell’altro ieri, perché la propaganda di Santiago Abascal, il leader di Vox, il partito della destra radicale spagnola che alle elezioni di domenica è diventato la terza forza del paese, non è certo cambiata.
Questo è solo uno dei discorsi più riusciti, tenuto a un’iniziativa di partito, con quel «fachas!» reiterato alla fine di ogni definizione. A ogni acuto del ritornello, a ogni «fascisti!», un’ovazione. «I progressisti, i comunisti e anche gran parte di questa destruccia codarda, avevano un insulto, un marchio, pronto da lanciarvi contro. Quasi sempre lo stesso: fascisti, mille volte fascisti. Con Vox, tutto questo è finito. Perché i marchi d’infamia e gli insulti di Pablo Iglesias, Pedro Sánchez e Quim Torra noi ce li mettiamo al petto come medaglie». Chiaro?
È al leader di questo partito che Matteo Salvini domenica sera ha mandato le sue felicitazioni via twitter, subito riprese dalle agenzie di stampa spagnole: «Grande avanzata degli amici di Vox, scommetto già pronti titoli di tg e giornali su “vittoria estrema destra, razzisti, sovranisti, fascisti…”
È al leader di questo partito che Matteo Salvini domenica sera ha mandato le sue felicitazioni via twitter, subito riprese dalle agenzie di stampa spagnole: «Grande avanzata degli amici di Vox, scommetto già pronti titoli di tg e giornali su “vittoria estrema destra, razzisti, sovranisti, fascisti…”. Macché razzismo e fascismo, in Italia come in Spagna vogliamo solo vivere tranquilli in casa nostra».
Macché fascismo, macché razzismo: è un artificio retorico che i media spagnoli non avranno avuto difficoltà a riconoscere. E nemmeno noi, perché lo sentiamo ripetere ogni giorno, e certo non solo da Salvini.
Intendiamoci, nessuno può negare che in politica l’accusa di fomentare il ritorno del fascismo, come tutte le accuse, sia stata usata anche a sproposito. O che a sinistra, e specialmente nelle sue frange più radicali, vi sia da sempre un’antichissima tendenza a denunciare come fascismo praticamente qualunque cosa si collochi appena più a destra di Mao Tse Tung.
Ed è anche per questo, ovviamente, che ridimensionare o ridicolizzare qualunque allarme sul fascismo è diventata, questa sì, una delle forme più diffuse e radicate di political correctness del nostro discorso pubblico. Gridare al fascismo, in poche parole, sta male. A prescindere. Forse però è venuta l’ora che la smettiamo di disquisire di galateo politico a prescindere dalla realtà, e cominciamo a dirci le cose come stanno.
Siamo proprio sicuri che vada tutto bene? Siamo proprio sicuri che questa retorica sulla «isteria» dei progressisti che vedono fascisti dappertutto, sulla «dittatura del politicamente corretto» e della «ideologia gender» sia proprio quello che ci vuole, per difendere la liberaldemocrazia dalle minacce di oggi?
Dunque, guardiamoci in faccia: siamo proprio sicuri che vada tutto bene? Siamo proprio sicuri che questa retorica sulla «isteria» dei progressisti che vedono fascisti dappertutto, sulla «dittatura del politicamente corretto» e della «ideologia gender», rilanciata tanto spesso anche da fior di liberali, sia proprio quello che ci vuole, per difendere la liberaldemocrazia dalle minacce di oggi?
Perché è questo il punto decisivo: al tempo di Donald Trump, dell’ascesa di democrazie illiberali come l’Ungheria di Viktor Orbán nel cuore dell’Europa, delle interferenze russe nei processi elettorali, da dov’è che vengono, esattamente, le più pericolose minacce alla democrazia e allo stato di diritto? Dall’ideologia gender e dal femminismo dilagante, come sostiene Abascal? Ogni opinione è lecita, naturalmente. Ma sarà almeno altrettanto lecito far notare a tanti impavidi e anticonformisti liberali che nessuno ha mai sentito la notizia di ragazzi aggrediti o di librerie date alle fiamme da parte di manipoli di femministe ed estimatori del politicamente corretto.
Questa continua banalizzazione del male, di cui l’estrema destra europea è la prima a servirsi, facendone il mantra della propria propaganda, non è l’ultima delle ragioni per cui nel nostro dibattito pubblico – giornali, televisioni, internet – gli anticorpi si sono così paurosamente abbassati.
Prima di levare grida indignate di fronte al fatto che Liliana Segre sia dovuta finire sotto scorta, domandiamoci dunque se ciascuno di noi, nei suoi brillanti corsivi sul giornale o nei suoi distratti post su facebook, nei suoi aforismi su twitter o nelle sue battute al bar, non stia dando anche solo un piccolo contributo a tutto questo.