La zuffa scatenatasi dopo la decisione della Cassazione di annullare la misura cautelare dell’interdizione dalla carica di Andrea Carletti, sindaco di Bibbiano, è l’ennesimo esempio del degrado culturale e politico del paese. L’inchiesta Angeli e Demoni costituisce una vicenda sulla quale sembra impossibile ogni terzismo, eppure è una caratteristica in cui molti opinionisti italiani eccellono: ecco dunque ad ogni novità o indiscrezione scatenarsi il tifo di fazione e lo sventolio di magliette.
Nel caso di Carletti alla base della decisione della Cassazione sembra esserci un errore tecnico del tribunale del riesame di Bologna, che prima dell’estate aveva deciso di sostituire gli arresti domiciliari con l’obbligo di dimora in un diverso comune. Secondo una tesi contenuta nel ricorso ed oggetto della discussione tenutasi presso la Suprema Corre lo scorso 4 dicembre, l’art. 289 del codice di rito vieta che una misura sostanzialmente interdittiva di una funzione pubblica (diversa cioè dal carcere e dagli arresti domiciliari) possa mai applicarsi al titolare di una carica elettiva, come quella di sindaco, e ciò al fine di evitare improprie interferenze della giustizia sul funzionamento delle istituzioni.
Se tale tesi venisse confermata dalle motivazioni che verranno depositare entro i prossimi mesi, la stragrande maggioranza dei commenti pubblicati in questi giorni sarebbero pura chiacchiera a vanvera. Carletti, che non ha nulla a che vedere con gli affidi dei minori, non è stato prosciolto, mentre resta inalterato l’interrogativo legato alla sua decisione amministrativa di stipulare una convenzione con un centro terapeutico ed il suo responsabile, Claudio Foti, da molti anni contestato quanto a valore scientifico e da cui aveva preso le distanze pure una associazione come il CISMAI di cui aveva fatto parte e che aveva addirittura contribuito a fondare.
Ci sarebbe da porsi piuttosto qualche domanda sull’efficienza del “sistema emiliano” già posto sotto accusa per le agghiaccianti vicende della bassa modenese di venti anni prima ben descritte in un libro ed in un podcast pubblicato da quella Repubblica che sulla vicenda attuale cavalca l’onda dello scetticismo. Forse la risposta ha a che fare con lo scontro elettorale per le regionali di Gennaio e ciò spiegherebbe perché alla contesa abbiano partecipato seri intellettuali ed accademici del diritto vicini o eletti nel PD.
«Da molti anni ormai, non c’è indagine importante, operazione di procuratori e polizie significativa che non parta dall’accurata ricerca di un nome in codice che sia comunicativamente efficace, alla maniera dell’irraggiungibile e mitico “Mani pulite”»
Uno di essi, il prof Carlo Fusaro, docente di diritto pubblico, pone un giusto problema pur traendo spunto peraltro dalla errata percezione della vicenda Carletti e cioè se la confusione e la cattiva informazione sulle più importanti indagini giudiziarie che spesso si concludono con inaspettati capovolgimenti ed assoluzioni abbia qualcosa a che fare col fatto «che da molti anni ormai, non c’è indagine importante, operazione di procuratori e polizie significativa che non parta dall’accurata ricerca di un nome in codice che sia comunicativamente efficace, alla maniera dell’irraggiungibile e mitico “Mani pulite”». Egli si chiede se «Fra procure e carabinieri-polizia… (si sia) sviluppata una specifica professionalità mirata allo scopo di rafforzare l’accusa (e le indagini: certo, certo, “a fin di bene”) con il massimo sostegno d’un’opinione pubblica e prima ancora di una stampa …prostrata a pelle di leone davanti a qualsiasi accusa». Meglio tardi che mai.
Ha ragione il prof. Fusaro; la sua intuizione, ancorché tardiva e buon’ultima, è giusta, ma essa di può utilizzare anche in analoghe vicende che hanno investito politici di altri partiti come Lara Comi di Forza Italia ed addirittura un pezzo da novanta dei 5 stelle come il presidente dell’assemblea capitolina Giuseppe De Vito. Entrambi furono arrestati con grande clamore per vedere poi le loro accuse drasticamente ridimensionate ancor prima di arrivare ad un processo.
Sarebbe utile sapere quali siano i numeri relativi all’accoglimento ed alle modifiche delle richieste cautelari avanzate dalle procure italiane verso migliaia di indagati, ma tali statistiche sono accuratamente precluse dal Ministero di Giustizia, come di recente ha potuto sperimentare anche l’Unione delle Camere Penali italiane, che rappresenta migliaia di avvocati interessati alla materia. Si ha motivo di ritenere siano significativi e, se l’opinione pubblica non si limitasse a protestare solo per i propri indagati ingiustamente colpiti, sarebbe possibile una qualche efficace riflessione.
Il codice di procedura penale limita allo stretto indispensabile le misure cautelari. Perché un qualsiasi cittadino sia arrestato occorrono probanti elementi di responsabilità ma non solo: sono necessarie esigenze legate al concreto pericolo di ulteriori reati, di inquinamento delle prove o al rischio di fuga dell’interessato. Ecco perché ha poco senso litigare sull’applicazione o meno di una misura cautelare: essa non necessariamente esclude o prova il grado di colpevolezza di un indagato. Tuttavia si sconta l’uso dell’informazione fatto dagli organi di indagine spesso in pieno accordo con le procure.
In Mafia Capitale ci sono ex imputati, assolti dalle accuse che hanno visto fallire la propria impresa, la propria vita e scontato anni di galera senza che nessuno si sia neanche scusato
Uno dei sistemi più sofisticati è stato messo in opera nella famosa inchiesta Mafia Capitale, dove a partire dal titolo si è ricorsi alla sapiente distribuzione di filmati preconfezionati dai ROS contenenti estratti di intercettazioni e pedinamenti. Tra i reperti più famosi ed utilizzati spicca quello della “teoria del mondo di mezzo”, uno sproloquio post-prandiale del boss Massimo Carminati presentato addirittura come programma politico.
L’esito infausto della prospettazione solennemente bocciata in via definitiva dalla Corte di Cassazione ha stupito solo i giornalisti, che hanno fermato la loro conoscenza ai filmati dei Ros, senza mai frequentare l’aula, fatta eccezione ovviamente per le requisitorie dei PM.
Le uniche eccezioni sono state quelle di Massimo Bordin di Radio Radicale, Ermes Antonucci de Il Foglio e Damiano Aliprandi de Il Dubbio che hanno raccontato di come i responsabili del Ros dei Carabinieri abbiano parlato in aula, dietro insistenza dei difensori, dell’esistenza di un apposito “ufficio pubblicità” per comunicare con l’opinione pubblica, i grandi media. Il tutto non molto diverso da ciò cui ci ha abituato la pubblicità politica, e se è lecito chiedersi con inquietitudine quanto libero sia il voto di un elettore influenzato da Cambridge Analytica, altrettanti interrogativi dovranno porsi su queste forme di influenza e pressione sui giudici.
E sarebbe bene che a porseli fossero le forze democratiche: sta lentamente inoculandosi la convinzione che la lotta contro supposte emergenze criminali giustifichi scorciatoie di ogni tipo ed il ricorso a metodiche propagandistiche da tempi di guerra. Il risultato drammatico sono le vittime collaterali del conflitto, coloro che restano sotto le macerie in una guerra non voluta. In Mafia Capitale ci sono ex imputati, assolti dalle accuse che hanno visto fallire la propria impresa, la propria vita e scontato anni di galera senza che nessuno si sia neanche scusato: è la guerra, dicono. Allora è inutile insorgere quando la ruota tocca i propri simili ed il proprio partito. Come insegna la Teoria del Caos di Lorenz, tra il battito d’ali che ha colpito un anonimo di Mafia Capitale e la prossima inevitabile tempesta su qualche leader politico c’è una stretta, strettissima connessione che solo una classe politica inetta e votata al suicidio finge di non vedere.