Quesiti linguisticiDa dove viene questa “idiosincrasia”? Risponde la Crusca

Rappresenta il proprio temperamento caratteriale, la radice delle nostre più intime inclinazioni, che emergono, nelle loro sfaccettature, nell'atteggiamento e nell’interazione con l’esterno

Tratto dall’Accademia della Crusca

Nell’uso contemporaneo più frequente e comune il termine idiosincrasìa esprime una “forte avversione per qualcosa o qualcuno”, una “ripugnanza esasperata”, una profonda insofferenza fino a una “forma di rifiuto assoluto, di incompatibilità radicale, di repulsione” (definizioni di Zingarelli 2020, Devoto-Oli 2020, Sabatini-Coletti 2008, accanto al significato specialistico medico). Questo impiego costituisce l’enfatizzazione negativa di un aspetto, ma non esaurisce l’ampio ventaglio semantico della parola, le cui origini vanno ricercate nel vocabolario filosofico-medico greco.

La vera arte della medicina mira all’individuazione della natura della persona malata; è, credo, ciò che molti medici chiamano idiosincrasia, e tutti concordano nel dire che è incomprensibile (Galeno, Methodus medendi, III, 7 = Kühn X, 209).

Il termine idiosincrasia è un prestito dal greco antico idiosynkrasía, parola composta dal prefisso idio– (dall’aggettivo ídios ‘proprio, particolare, privato, personale’, e anche ‘distinto, singolare, insolito’) e dal sostantivo sýnkrasis (con cambio di terminazione) ‘mescolanza’, ‘temperamento’.

Il suo significato letterale era di “mescolanza individuale (di umori)”, “particolare temperamento”, “costituzione”, secondo la medicina umorale: se la discrasia è la disomogenea mescolanza degli umori che provoca la malattia, l’idiosincrasia è la peculiare condizione dell’organismo di un singolo essere umano, in cui la predominanza di un umore, senza arrivare a un disequilibrio patologico, determina tuttavia la predisposizione ad alcune malattie, l’aspetto fisico e caratteriale e condiziona i comportamenti individuali.

Galeno (129-199) attribuisce il termine alle scuole mediche rivali (la parola è attestata in Sorano di Efeso, medico esponente della scuola metodica, nella prima metà del II sec.), con le quali polemizza, perché trascurano le idiosincrasie dei singoli, inafferrabili, e falliscono nella cura, mentre il trattamento deve essere appropriato allo stato del paziente nella sua individualità.

Sugli umori e sulla salute è inevitabile l’influenza delle stelle, prevedibile però, secondo Tolomeo (ca. 90-168), attraverso codici precisi di interpretazione: per il prognostico è necessario conoscere le idiosincrasie, cioè i tratti di fondo, le caratteristiche naturali tipiche di ogni individuo.

Il termine è attestato, pur con una variante formale (idiosýnkrisis), anche nel trattato sui rimedi e antidoti contro i veleni (De venenis), oggi ritenuto spurio, ma tramandato spesso con i cinque libri della farmacopea di Dioscoride (I sec.), dove si parla di idiosincrasie corporee resistenti a certe sostanze venefiche.

Dopo sporadiche attestazioni, nel filosofo Sesto Empirico (II sec.) e nel medico Oribasio (IV sec.), le tracce della parola sembrano disperdersi nel passaggio, spesso per tramite arabo, alla latinità medievale, a vantaggio della nozione di complexio “complessione”, per indicare la natura psico-fisica di un individuo. Le rinnovate traduzioni umanistiche, direttamente dal greco, e i volgarizzamenti di Dioscoride, mostrano gli sforzi esegetici nella resa del termine con perifrasi e sinonimi.

L’idiosincrasia è la peculiare condizione dell’organismo di un singolo essere umano, in cui la predominanza di un umore determina tuttavia la predisposizione ad alcune malattie

È nel Cinquecento che il termine comincia a riapparire, nella traduzione di Thomas Linacre della Methodus medendi galeniana (Parigi, 1519): idiosyncrasia (in altro luogo del testo idiosyncrisia); alla fine del secolo è registrato nel dizionario greco-latino di termini medici di Bartolomeo Castelli (1598).

Attraverso il latino scientifico il termine giunge in italiano. Nel 1646 lo si trova nella traduzione italiana di un trattato sull’opobalsamo (resina vegetale adoperata nella preparazione della teriaca, un miscuglio di spezie, droghe e veleni ritenuto una panacea per tutti i mali): l’idiosincrasia, “particolare proprietà, e naturalezza”, può spiegare gli effetti inconsueti e inattesi di certe essenze (Del vero opobalsamo orientale, pubblicato in latino nel 1640 e tradotto dal fiorentino Baldo Baldi, archiatra pontificio di Innocenzo X).

Il termine entra gradualmente nel linguaggio della medicina: Antonio Vallisneri (1661-1730), medico e scienziato con interessi naturalistici, parla più volte di “quella celebre idiosincrasia del nostro stomaco, riferita da Galeno, che odia sovente, e rigetta cose utilissime, e al nostro genere amiche, come se mortiferi veleni fossero, e brama altre comunemente nemiche”.

Il vocabolo è inserito tra le Voci (lasciate fuori dal Vocabolario della Crusca) di Giovan Pietro Bergantini (1745) ancora come “temperamento, e proprietà dei corpi”. Con il progressivo distacco dalla teoria degli umori assistiamo a un primo movimento semantico della parola: da “condizione” particolare, specifica di un organismo e di un organo al significato di “disposizione” (sfavorevole), di “reattività” (patologica) a qualcosa. Sono i trattati e l’uso medico prima e i dizionari medico-scientifici poi a veicolare il secondo significato: nei repertori lessicali si comincia a intendere l’idiosincrasia come una “indisposizione particolare che determina in alcuni individui […] fenomeni differenti […] da quelli che accadono nel maggior numero degli uomini” (Dizionario classico di medicina interna ed esterna, o di chirurgia e d’igiene pubblica e privata, composto dai signori Adelon, Andral, Beclard et al., prima traduzione italiana [dal francese] di Mosè Giuseppe Levi, 1831-1840). Attestano già un significato analogo i dizionari di grecismi di Aquilino Bonavilla e Marco Aurelio Marchi (1819-1821) e del solo Marchi (1828-1829), il vocabolario Tramater (1829-1840) e il Panlessico italiano diretto da Marco Bognolo (1839), dove l’idiosincrasia è una “particolare organica avversione o suscettibilità a risentirsi per l’azione di certi agenti esterni, che per la maggior parte degli uomini sono invece utili e piacevoli”. Insomma, la parola indica una irregolarità, un’incompatibilità sintomatica con certe sostanze (farmaci, veleni, alimenti), ed è usata in medicina come un nome generico per identificare tutte quelle malattie non altrimenti caratterizzabili clinicamente (e talora collegate ad affezioni psichiche). Nel corso del secolo il termine va progressivamente diffondendosi: è attestato nella quinta edizione del Vocabolario della Crusca (vol. 8, 1889) come “abito o costituzione propria e particolare di ciascun individuo, di qualche suo viscere, o risultante dall’organismo di esso”, registrato nel Novo dizionario universale della lingua italiana di Policarpo Petrocchi (1887-1891) come “disposizione individuale a risentire di certi effetti e agenti”, e definito nel Dizionario moderno di Alfredo Panzini (1905) ormai come “repugnanza organica ad un dato medicamento o anche alimento”.

Nel linguaggio medico moderno idiosincrasia ha assunto dunque per estensione il significato di ipersensibilità individuale

L’introduzione del concetto di allergia (1906) da parte del pediatra viennese Clemens von Pirquet, nei suoi studi sulla febbre da fieno, permette di comprendere meglio una serie variegata di fenomeni patologici, prima classificati come antipatie o idiosincrasie e ora interpretabili come manifestazioni allergiche. L’ipotizzato legame tra reazioni allergiche, idiosincrasiche e tratti psicologici individuali esagerati (fino allo squilibrio mentale) ha così ricondotto, per una parte del Novecento, a quadri clinici di idiosincrasia alcuni disturbi psichiatrici e ha mantenuto in uso il termine soprattutto nel vocabolario della psichiatria per indicare disordini depressivi, fenomeni di nevrosi o di insana fobia (idiosincrasia nevrotica, fobica).

Nel linguaggio medico moderno idiosincrasia ha assunto dunque per estensione il significato di ipersensibilità individuale, che provoca fenomeni imprevisti di irritabilità, di intolleranza. Ulteriori studi e scoperte sulle cause dei disturbi allergici hanno chiarito e delimitato l’ambito medico di uso del termine (classificato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1972 come “reazione avversa di tipo B”, bizzarra e imprevedibile).

Con l’espressione idiosincrasia farmacologica (già isotossica) o farmacoidiosincrasia (drug idiosyncrasy o idiosyncratic drug reaction) si indica oggi in contesto medico la risposta anomala al trattamento con un farmaco che in soggetti normali risulta innocuo, non imputabile al sistema immunitario e dipendente da vari fattori. Nella comunicazione divulgativa e nel linguaggio comune l’accezione resta sempre piuttosto generica, così nei moderni dizionari dell’uso il tecnicismo medico è definito come “sensibilità patologica particolare di alcuni individui” (GRADIT) o “intolleranza organica verso particolari sostanze o medicinali” (Garzanti 2017).

Se è vero che l’individuo si accoppia di preferenza al suo contrario (la “legge della vita”), ciò nasce dal fatto che esiste un orrore istintivo di esser legato a chi esprime i nostri stessi difetti, le nostre idiosincrasie, ecc. La ragione è evidentemente che difetti ed idiosincrasie, scoperti in chi ci è vicino, ci tolgono l’illusione – prima da noi nutrita – che fossero in noi singolarità scusabili perché originali (Cesare Pavese, 21 maggio 1940, da Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, Torino, Einaudi, 1952).

Veleni, allergie e altre fobie: è dunque attraverso una “deviazione” dell’accezione medica che il termine idiosincrasia fuoriesce dal linguaggio della scienza con il valore di “avversione”.

In un’epoca nella quale trionfa il positivismo, il lessico tecnico-scientifico tracima nella lingua comune e penetra nei testi letterari: tra i primi autori a fare uso del termine, in senso figurato, è Giosue Carducci, che inveisce, in una vivace polemica letteraria, contro un critico “scambiante per principii d’arte universali le declamazioni d’una idiosincrasia liberale e civile” (Critica e arte, 1874). Tra l’ultima parte dell’Ottocento e il primo Novecento il vocabolo attrae non solo diversi scrittori e letterati (Vittorio Imbriani, Giuseppe Chiarini, Gian Pietro Lucini, Giovanni Papini ecc.), ma si diffonde anche nei giornali, che assorbono novità lessicali e le propagano, soprattutto in ambito politico-istituzionale: così “chi governa il Paese sappia prescindere dalle personali ripugnanze e idiosincrasie” (“La Stampa”, 13 settembre 1911).

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