Fine leadership maiL’irrottamabile Berlusconi dimostra qual è la regola aurea della politica italiana

A 83 anni, il fondatore di Forza Italia dice che un passaggio di testimone nel suo partito «non è all’ordine del giorno». La tragedia è che ha ragione, basta rileggere la storia recente e meno recente

DAMIR SENCAR / AFP

Ieri, 2 gennaio 2020, dall’alto dei suoi ottantatré anni, Silvio Berlusconi ha dichiarato a Repubblica che «un passaggio di testimone in Forza Italia non è all’ordine del giorno». La tragedia è che ha ragione. E non solo per Forza Italia.

In Italia, l’ultima volta che una tale questione è stata posta con qualche durevole efficacia all’attenzione dei dirigenti di un partito fu con l’ordine del giorno Grandi. E anche in quel caso, la riunione del Gran Consiglio del fascismo che segnò la caduta di Benito Mussolini, la definitiva uscita di scena del leader non fu dettata da una decisione interna al suo partito – ancorché, diciamo così, fortemente condizionata da circostanze esterne – ma dall’esito della guerra, due anni dopo, e fu assai più cruenta.

Senza volerla fare troppo lunga, risalendo fino ai tempi di Giovanni Giolitti, o addirittura di Camillo Benso di Cavour, si può dire che questa sia da sempre la regola non scritta della politica italiana, che a volerla scrivere recita più o meno così: le partite non finiscono mai, se non per esaurimento fisico dei contendenti, o altre cause di forza maggiore, quali arresto, esilio, grave problema di salute, messa fuori legge del proprio partito o sconfitta in una guerra mondiale. A riprova del fatto che in Italia le regole non scritte sono le uniche regole che si rispettano sempre.

Quasi impossibile trovare da noi esempi di ex capi di governo impegnati soltanto in conferenze e iniziative benefiche, come tutti gli ex presidenti americani, da Barack Obama indietro fino a Jimmy Carter (per restare ai vivi), o come gli ex premier britannici (da David Cameron a Tony Blair), spagnoli (da José Luis Rodríguez Zapatero fino a Felipe González) e tedeschi (Gerhard Schröder, in verità, si è trovato un impiego più remunerativo e meno encomiabile, ma comunque è uscito dalla politica). Nell’Italia di oggi, l’unica eccezione, per il momento, è costituita da Enrico Letta. Le altre a cui state pensando sarebbero già al secondo o terzo rientro, dunque non possono essere conteggiate tra i ritirati, ma al massimo tra i riservisti.

Quanto al passato, se parliamo di leader che siano effettivamente usciti di scena (e anche su questo punto dovremmo aggiungere parecchie precisazioni), le vere eccezioni alla regola, negli ultimi cento anni, saranno state quattro o cinque: Achille Occhetto, Francesco De Martino, Mariano Rumor (più uno che mi sarò sicuramente dimenticato, al massimo due). La vicenda di Fausto Bertinotti, invece, meriterebbe un capitolo a parte, avendo praticamente disintegrato partito e coalizione da lui guidati alle elezioni del 2008, e ciò nonostante avendo indicato egli stesso il proprio erede (Nichi Vendola) al successivo congresso di Rifondazione comunista, perdendo anche quello.

Altra questione, naturalmente, è il caso dei leader affondati con tutta la nave, come Antonio Di Pietro o Gianfranco Fini, conferma estrema dell’impossibilità di ogni naturale avvicendamento. O quello di chi si ritira solo per prendere meglio la rincorsa, cui accennavo un momento fa: e qui andrebbe stilato l’infinito elenco dei leader di centrosinistra che dopo avere solennemente abbandonato la politica hanno fatto – o ri-fatto – il presidente del Consiglio, il segretario di partito o il ministro (senza dimenticare, ovviamente, la corsa per il Quirinale: unica carica per accedere alla quale, in Italia, è obbligatorio ritirarsi dalla competizione). O ancora il caso di chi, pur di non mollare la leadership, si è fatto un altro partito: dal già citato Nichi Vendola, uscito dal suo partito nel 2009, pochi mesi dopo un’imprevista sconfitta congressuale, a Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, usciti dal loro nel 2017, tre mesi prima del congresso, avendola prevista.

Con le suddette precisazioni, e un paio di altre eccezioni a cui so che state pensando e su cui verrò tra un momento, si può dire che la questione del «passaggio di testimone» evocata da Berlusconi all’alba del 2020 – dopo avere seppellito tutti i suoi avversari interni ed esterni – all’ordine del giorno non ci sia stata mai, per nessuno.

Per quanto riguarda il Partito comunista, dalla Liberazione in poi, i segretari sono stati sostituiti esclusivamente per cause naturali. Da vivi, soltanto in due: Luigi Longo, perché colpito da ictus e di conseguenza affiancato come vicesegretario già nel 1969 da Enrico Berlinguer, successore designato dallo stesso Longo al congresso del 1972, e Alessandro Natta, che si dimise nel 1988, poco dopo un infarto, sollecitato anche dalle indelicate pressioni ricevute mentre era ancora nel letto d’ospedale. E il già menzionato Occhetto, naturalmente – che era peraltro il principale beneficiario, per non dire l’ispiratore, delle pressioni di cui sopra – ma solo quando il Pci non c’era già più: nel 1994, dopo la doppia sconfitta elettorale del Pds alle politiche e alle successive europee.

Quanto al Partito socialista, Pietro Nenni ha continuato a esercitare un ruolo rilevantissimo ben oltre la sua lunga stagione da segretario, ed è stato decisivo nell’ascesa di Bettino Craxi, nel 1976. Il quale a sua volta non si può dire che abbia ceduto il passo in seguito a un normale avvicendamento interno. Anzi, si potrebbe dire che il suo caso, come quello per altri aspetti diversissimo di Matteo Renzi, sia una dimostrazione a contrario della tesi: quando qualcuno prova cioè a violare la regola aurea, dando l’assalto ai gruppi dirigenti del proprio partito in nome del ricambio generazionale prima del tempo (cioè prima della loro consunzione fisica), il risultato è che se li ritrova tutti alleati contro, i vecchi gruppi dirigenti del suo, ma pure quelli degli altri partiti, e delle burocrazie, magistrature, case editrici, giornali, giù giù fino agli amministratori di condominio. A ripensarci oggi, bene o male, Craxi è rimasto in sella per un quindicennio, dal 1976 al 1992. Matteo Renzi, che con la parola d’ordine della rottamazione sembrava deciso a spezzare per sempre l’incantesimo, nemmeno quattro anni: dal 2014 al 2018.

Dunque ha ragione Berlusconi, che in questo sembra avere preso a modello i vecchi leader democristiani, con le loro convergenze parallele, le loro politiche dei due forni e la loro incredibile capacità – affinata in decenni di democrazia bloccata, in cui l’unica alternanza possibile era quella tra le correnti della Dc – di non rompere mai fino in fondo nemmeno con l’avversario più accanito, in un centrismo che è stato sempre anzitutto un centro di gravità permanente, attorno al quale potevano cambiare le idee, ma mai la gente. Così Berlusconi è insieme il primo populista d’Italia e il primo argine al populismo di oggi, garante dei suoi aspiranti successori presso quelle stesse cancellerie europee che fino a ieri qualificava in termini irriferibili, venendone ricambiato con risa di scherno in diretta tv; nemico numero uno di ogni disciplina fiscale (come di ogni altro genere di disciplina, del resto), ma anche padre nobile del governo Monti, nonché suo primo affossatore nella scoppiettante campagna elettorale del 2013, che non rivinse per poche migliaia di voti, nell’ennesima, imprevedibile e come sempre imprevista delle sue mille resurrezioni.

Ecco perché in Forza Italia il passaggio di testimone non è all’ordine del giorno, e in Italia nemmeno. Dunque, mettetevi comodi: nonostante le tante ragioni di preoccupazione e persino di allarme, alla fine dei conti, vi aspetta un 2020 noiosissimo.

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