Quanto dipendiamo dalla Cina?Il coronavirus fa male (anche) all’economia mondiale

L’impatto economico dell’infezione, secondo gli analisti di Nomura, sarà superiore a quello della Sars. Stimare con precisione l’onda d’urto del virus è ancora impossibile, tuttavia, l’intero sistema globale è esposto, e impreparato, alle conseguenze di un “cigno nero”

Gli aspetti del coronavirus che sfuggono alla comunità scientifica, al momento, sono ancora molti. Una cosa certa, però, c’è: l’epidemia rischia di mettere in ginocchio l’economia mondiale. L’impatto economico dell’infezione, infatti, secondo gli analisti di Nomura sarà superiore a quello della Sars. Per intenderci: la sindrome scoppiata 17 anni fa sempre in Cina, si mangiò 25,3 miliardi di dollari di Pil cinese, oggi si parla di 40 miliardi. In aggiunta, il governo di Pechino ha chiuso un’intera provincia, mentre durante lo scoppio della Sars nemmeno una grande città restò isolata.

I dati finora disponibili parlano, appunto, di un calo molto più marcato di quello causato dalla Sars, dovuto principalmente alla posizione in cui si è diffuso il virus. La singola provincia dello Hubei, nella quale si trova la città di Wuhan, è una delle dieci province più importanti di tutta la Cina in termini di industria, finanza, affari, tecnologia e istruzione. Nonché, aggravante che ne ha velocizzato la diffusione, uno dei principali snodi dei trasporti verso le più grandi metropoli cinesi come Pechino, Shanghai e Guangzhou.

Solo dal peso di questi fattori, sulla base dei calcoli degli analisti di Nomura, è possibile stabilire che nel primo trimestre del 2020 la crescita del Pil cinese precipiterà rispetto al quarto trimestre del 2019, portando con sé filiere e Borse internazionali (solo il movimento turistico cinese muove nel mondo 130 miliardi di dollari all’anno). «Ci sono diverse questioni da valutare, fra tutte quella dei consumi. Il blocco della produzione dovuto alle misure di prevenzione, inevitabilmente, manifesterà delle ripercussioni anche nel nostro Paese», spiega a Linkiesta Filippo Fasulo, coordinatore scientifico del Centro Studi per l’Impresa della Fondazione Italia Cina. «In particolare su due voci: quella del turismo e quella del lusso. Entrambe sono fondamentali, in quanto il consumo dei cittadini cinesi equivale a un terzo del mercato globale del lusso, come del resto potrebbe subire un impatto importante a livello internazionale anche il settore dell’intrattenimento, per esempio il cinema che vede il popolo cinese come secondo consumatore dopo gli Stati Uniti».

In altre parole: l’interdipendenza creatasi negli anni tra i vari mercati mondiali con quello cinese, ha amplificato le debolezze di molte economie, tra cui quella italiana, che adesso dovranno fare i conti anche con l’instabilità delle Borse e lo stop della produzione. I crolli dei listini asiatici – che arrivano al termine dell’annus horribilis per la crescita dell’economia cinese -, che finora hanno bruciato quasi 300 miliardi, e la sospensione delle attività di alcune grandi imprese, come Toyota, Mc Donald’s, Starbucks e Ikea, mostrano una Cina ferma e chiusa che, a differenza del momento storico in cui è scoppiata la Sars, è all’interno di un sistema di economie molto più esposto alle conseguenze di un cigno nero come può essere il coronavirus. «Di per sé questo periodo per la Cina è generalmente di rallentamento, in forza delle chiusura di molte aziende e per le lunghe festività che il capodanno cinese comporta», continua Fasulo. «I prolungamenti delle ferie che le aziende coinvolte hanno già fatto sapere di voler adottare, sarà un indicatore fondamentale per capire l’entità del virus sull’economia: ovvero, in quel periodo di tempo potrà essere misurato il grado di dipendenza mondiale dal sistema produttivo cinese».

Una prova empirica, quindi, per capire quanto realmente dipendiamo dalla Cina. Per assurdo, almeno per l’Italia, un bilancio parziale è già possibile farlo: gli acquisti di lusso esentasse nel 2019 hanno come primi attori proprio i cinesi (28 per cento del totale), per un totale di spesa di 462 milioni di euro, oltre 300 euro al giorno, circa 1.500 euro a viaggio.

Il gigante asiatico vivrà un periodo di recessione anche di carattere agricolo, poiché il ministero dell’Agricoltura cinese ha vietato allevamento, trasporto e commercio di tutti gli animali. Difficile sarà poi assorbire lo stop e far ripartire il settore trasporti, in particolare quello aereo. Le previsioni per il 2020, che sarebbe dovuto essere «l’anno del turismo e della cultura Italia-Cina», notificavano l’aumento dei collegamenti aerei diretti (sino a 126 voli la settimana) per un totale di 4 milioni di turisti cinese in arrivo nel nostro Paese.

Allo stato attuale, British Airways, Iberia e Lufthansa hanno sospeso i voli dal Paese asiatico, per un tempo e con ripercussione del tutto incalcolabili. «Speriamo in pochi mesi di riuscire a estrapolare un bilancio almeno parziale sul colpo inferto dal coronavirus. Sicuramente, solo in questo frangente iniziale si sono innescate una serie di dinamiche che minano alla fiducia nei confronti della Cina e dei suoi prodotti, i quali potrebbero essere soggetti in futuro a una revisione dei criteri di consumo e di qualità. Potrebbe quindi esserci una trasformazione delle sensibilità, con maggior attenzione verso prodotti di alta qualità anche per il consumatore cinese, il che tutto sommato potrebbe anche essere un punto a favore per il mercato italiano», commenta Fasulo. Economia e geopolitica sono sicuramente secondarie di fronte alle necessità di un’emergenza sanitaria simile, come del resto è difficile non pensare che, in tutte le sue diramazioni, il lato peggiore del coronavirus deve ancora mostrarsi.