Ogni anno gli analisti economico-finanziari si cimentano nell’elenco dei possibili “cigni neri”, ovvero quegli eventi improvvisi e/o poco prevedibili che possono portare a un brusco peggioramento dell’economia mondiale. Si va da fatti politici (l’impeachment di un presidente americano, ad esempio), economici (il fallimento di una banca importante), o legati al terrorismo (l’11 settembre è l’esempio principe).
Erano pochi quelli che, poche settimane fa, avevano inserito nell’elenco una possibile pandemia. Eppure, eccoci qua. La magnitudine dei danni che il coronavirus sta provocando e provocherà è ancora difficilmente calcolabile. Il Pil della Cina potrebbe crescere “solo” del 5%, invece che del 6,1% del 2019. È forse una previsione ancora ottimistica, ma in ogni caso foriera di conseguenze per tutti i Paesi che dalla Cina dipendono a livello di commercio internazionale e soprattutto di supply chain, essendosi ormai trasformato l’ex Impero Celeste nella principale fabbrica mondiale.
Una cosa appare però piuttosto probabile. L’Italia, almeno nel breve periodo, dovrebbe essere colpita meno degli altri grandi Paesi industrializzati. E questa sarebbe una notizia positiva, se solo non fosse per la ragione. Questa risiede nel fatto che la nostra economia è riuscita meno di altre a fare breccia in Cina negli ultimi due decenni. In altre parole, non siamo stati in grado di accrescere le nostre esportazioni e di migliorare la nostra bilancia commerciale, sia in termini quantitativi che qualitativi, quanto gli altri Paesi Ue.
Anzi, a dirla tutta, siamo stati tra i peggiori. Il confronto con la Germania, per esempio, è impietoso. Tra il 2002 e il 2018, le esportazioni tedesche sono aumentate da 14,6 a 93,6 miliardi di euro in valore, pari al 542,7%. Quelle italiane da 4 a 13,1 miliardi, ovvero del 226,8%.
Che sia difficile competere con la Germania e le sue grandi aziende lo sappiamo, ma il punto è che l’incremento totale delle esportazioni della Ue, pari al 502%, è si avvicina molto di più alle percentuali tedesche che a quelle italiane.
Ma non è solo la Germania a batterci. Sostanzialmente tutti i Paesi Ue, con solo due eccezioni (Romania e Finlandia), hanno aumentato l’export più di noi. È naturale che le economie più piccole, soprattutto a Est, abbiano messo a segno incrementi anche di 50 volte superiori, ma in realtà anche quelle più grosse e non propriamente “emergenti” hanno fatto meglio di noi. La Spagna, ad esempio, con un +697,8%, e la Francia, con un +462,3%.
Verso la Cina la nostra performance è stata ancora più negativa di quelle, già non brillanti, che avevamo verso altri mercati, come quello Ue, quello degli Usa, e più in generale quello extra Ue. In termini statistici, a dettare la linea del successo o dell’insuccesso è il cosiddetto saldo della bilancia, cioè la differenza tra importazioni ed esportazioni e il peso di questa differenza sul totale dell’interscambio.
Nel caso dell’Italia e della maggioranza dei Paesi, questo indicatore è negativo, e dunque significa che, nel rapporto commerciale con la Cina, importiamo più di quanto esportiamo. Questo è pacifico e risaputo. Il problema è che, nel nostro caso, il disavanzo è superiore sia di quello medio europeo, che è del 30,3% (il nostro è superiore al 40%), sia di quello francese (pari al 17%), sia di quello tedesco, paese dove in realtà dal 2011 si registra un avanzo.
In effetti anche nel caso italiano siamo davanti a un miglioramento della posizione commerciale verso la Cina, con un saldo negativo che aveva vissuto un minimo del 57,2% sull’interscambio prima di risalire fino al 40,4% del 2018. Eppure, altrove i progressi sono stati maggiori. Tanto che, se nel 2002 eravamo tra i migliori otto in fatto di saldo con la Cina, nel 2018 siamo scesi in 13esima posizione.
Per inciso, siamo tra i soli quattro Paesi, assieme a Romania, Austria e Lussemburgo, dove rispetto al passato si è verificato un peggioramento. In tutti gli altri Paesi, anche lì dove non si è raggiunto quel saldo positivo di cui si può vantare la Germania, insieme a pochi altri, vi è stato un miglioramento, e cioè le esportazioni sono cresciute più in fretta delle importazioni. In Italia non è successo.
E difficilmente si può ritenere che sia colpa dell’euro e dell’impossibilità di svalutare, come pensano alcuni, visto che invece nei confronti dei mercati sia europei che extra-europei abbiamo migliorato i nostri saldi più della media UE ed anche più della Germania, come nel caso del bilancio verso gli Stati Uniti e del commercio intra-comunitario. Peccato che si tratti di mercati che sono cresciuti decisamente meno di quello cinese.
Non è una questione di moneta, ma di competitività, di forza commerciale e di capacità di penetrare mercati nuovi, non solo di approfittare dell’incremento del commercio laddove si è già presenti (Europa e USA, per esempio).
È un problema industriale. Di quelle imprese che, magari perché troppo piccole, oppure troppo conservatrici, non hanno potuto o voluto investire il necessario per poter essere presenti là dove non erano conosciute. Non potendo (o volendo) nuotare nell’oceano aperto, sono rimaste in mari conosciuti.
E così l’intera economia italiana, pur essendo un Paese di santi, poeti e soprattutto navigatori, ne è rimasta scottata.
Guarda caso, le variazioni più negative del saldo della bilancia commerciale sono avvenute proprio nei campi industriali in cui è maggiore sia il potenziale valore aggiunto che il nostro disavanzo, quello dei prodotti elettronici e dei computer, ad esempio, come quello della produzione di attrezzature elettriche. Due ambiti in cui la Germania ha invece migliorato la propria posizione. Non va meglio nemmeno il settore della produzione di macchinari, dove pure siamo in avanzo, ma in cui il saldo è peggiorato del 40,4%. E malgrado i progressi anche notevoli registrati nel campo agroalimentare, i saldi, come i margini, sono rimasti più bassi. Stesso discorso per il settore farmaceutico. Non basta.
L’urto economico del coronavirus sarà forse più ridotto in Italia, come più ridotto è per ora quello sanitario rispetto a Francia, Germania e Regno Unito. Ma quando l’emergenza sarà finita, non illudiamoci, il futuro tornerà a essere cinese. E non potremo continuare a ignorarlo.