La Cina bloccata dal coronavirus: ma anche l‘India ha problemi addirittura di cipolle, la Russia non esce da una sindrome olandese che affannosamente Putin cerca di affrontare cambiando governo, Brasile e Sudafrica hanno a loro volta problemi esemplificati dai guai giudiziari che hanno portato in galera l’ex-presidente Lula e hanno fatto appena emanare a un giudice un ordine di arresto per il presidente Jacob Zuma. Insomma, anche i Brics piangono.
Quella che frigna più di tutti, ovviamente, è la Cina. La pandemia l’ha colta in contropiede proprio mentre sviluppava quella ambiziosa politica della “nuova via della seta” che secondo varie accuse implicava addirittura l’idea sottintesa di esportare anche il proprio modello politico autoritario, oltre che di fare affari. Adesso, invece, si fa sempre più forte il parallelo sull’impatto che per l’Unione Sovietica ebbe il disastro di Chernobyl. Specie dopo la rivelazione che le autorità avevano silenziato a colpi di repressione gli allarmi dei medici: giusto in questo momento i giornali stanno parlando della morte di Li Wenliang, il 34enne che per primo di era accorto del micidiale contagio.
Quattro giorni fa la Fondazione Italia Cina stimava che il coronavirus avrebbe potuto costare al Pil cinese un 1% in meno, ma altre stime hanno poi ipotizzato che la crescita avrebbe potuto precipitare addirittura al 2%: raccapricciante, dopo che lo scorso ottobre un +6% che per noi sarebbe da miracolo economico aveva già fatto titolare su una crisi incipiente, visto che è il minimo da trent’anni. Adesso Standard & Poor’s precisa: il Pil in Cina nel 2020 crescerà del 5% a fronte del 5,7% ipotizzato in precedenza, a causa delle pesanti conseguenze dell’epidemia scatenata dal coronavirus di Wuhan.
Sono almeno 24 tra province e municipalità cinesi, come Shanghai, Chongqing e il Guandong, che hanno rinviato la ripresa delle attività economiche e produttive a non prima del 10 febbraio per i timori di contagio del coronavirus di Wuhan. Sono aree che nel 2019 hanno pesato per oltre l’80% in termini di contributo al Pil della Cina e per il 90% all’export. L’Hubei, cuore dell’epidemia, non ripartirà prima del 14 febbraio: sempre che non si richieda una “appropriata estensione” del periodo di ferie, come ha avvertito il Quotidiano del Popolo. La stessa Wuhan è una metropoli da oltre 11 milioni di abitanti che era diventata negli anni uno dei centri propulsori degli investimenti cinesi sulle nuove tecnologie e l’industria pesante, con tassi di crescita locali pari al 7,8% nel 2019 e alll’8% del 2018.
Si stima un possibile crollo dei consumi cinesi attorno al 10%, ovviamente l’impatto per il turismo è devastante, e anche le grandi compagnie hanno iniziato a ridurre i contatti diretti con la Cina. Facebook, ad esempio, ha invitato i suoi impiegati a evitare viaggi non necessari e ha chiesto ai suoi dipendenti che hanno viaggiato in quel Paese di lavorare da casa. Anche Hsbc ha bloccato tutti i viaggi dei suoi dipendenti verso Hong Kong e la Cina. Starbucks e McDonald’s hanno chiuso i loro punti vendita, Disney il suo Resort a Shanghai, e anche la Toyota ha annunciato lo stop della produzione negli stabilimenti cinesi. Preoccupante per Pechino anche l’immagine dilagante del “cinese untore” che sicuramente può essere tacciata di razzismo, ma che comunque è destinata a creare problemi durevoli alla strategia cinese di penetrazione nelle attività economiche mondiali.
Conseguenza della stasi economica cinese è l’atteso calo dei prezzi del petrolio, oltre che di altre materie prime. In effetti dopo essere scese sotto i 50 dollari al barile le quotazioni hanno ripreso un po’ a salire, in base all’aspettativa di un accordo Opec per un massiccio taglio della produzione, e al momento di scrivere queste note il Brent stava sopra i 55. Ormai però con Opec si intende la Opec+, allargata alla Russia. E infatti è stata la riunione “tecnica” dell’Opec+ che ha discusso sulla possibilità di estendere i tagli di produzione fra 800.000 e un milione di barili, rispetto ai circa 500.000 inizialmente ipotizzati. Se comunque sarà per calo dei prezzi o calo della produzione, si preannunciano minori incassi per una economia che, come quella della Russia, è ormai tutta appoggiata su petrolio e gas, che rappresenta il 60% del Pil.
Lo stesso Pil secondo i dati ufficiali cresce a livelli inferiori al 2%: insufficiente per un Paese i cui consumi ristagnano e il tasso di povertà è arrivato al 15%. Vari analisti parlano di una chiara “sindrone olandese”, dal Paese in cui per la prima volta fu rilevata dopo la scoperta del gas nel Mare del Nord. Un settore energetico che assorbe tutta la manodopera qualificata e rafforza il rublo, rendendo impossibile al resto dell’economia di essere competitiva. Qualcuno sospetta che i famosi “troll di Putin” esaltino fenomeni come la rivolta dei Gilet Gialli contro la Carbon Tax di Macron o anche lo scetticismo anti-Greta sui Social appunto per scongiurare l’incubo di una fuoriuscita dal petrolio che ridurrebbe letteralmente la Russia in mutande.
Putin si rende conto del problema? Sembrerebbe di sì, dal recente cambio di governo che ha fatto primo ministro Mikhail Mishustin: un tecnocrate protagonista di una efficace modernizzazione del fisco, e che si spera possa avere altrettanto successo nel ristrutturare l’economia del Paese nel suo complesso. Ma come spesso accade è proprio nel controllo di petrolio e gas che il regime ha la sua base di forza, attraverso il controllo di giganti come Rosneft e Gazprom. Potrebbe risultare non possibile superare questa situazione, al di là delle buone intenzioni.
Se però alla Cina la fa piangere il virus e alla Russia la sindrome olandese, per l’India è proprio un problema di cipolle. Che fanno lacrimare sempre, ma in India avrebbero fatto crollare la crescita del Pil in due anni dall’8 al 4,5%, mentre l’inflazione schizzava al 7,3%. Superando ogni limite stabilito dal governo. Una vera e propria stagflazione, secondo l’etichetta lanciata negli anni ’70. Come si studia all’Università, allora in Occidente il problema fu determinato dai vincoli di sistemi produttivi di trasformazione che per via dalla dipendenza di materie prime da lavorare avevano raggiunto il massimale produttivo pur senza avere ancora la piena occupazione. Di conseguenza ogni strategia keynesiana di stimolo alla domanda si riproduceva automaticamente in termini di inflazione senza fare in tempo a generare alcun effetto produttivo, contribuendo a quello screditamento del paradigma keynesiano dal quale si sarebbero alimentate le sfide di Ronald Reagan e Margaret Thatcher.
In India, invece, il vincolo è la presenza di una popolazione che oltrepassa largamente il miliardo, e che per la propria sussistenza dipende in larga misura da vegetali, e soprattutto dalle cipolle. Onionomics fu il termine coniato dai media nel 2010, quando un precedente rincaro delle cipolle mise in crisi un governo. Stavolta il problema è dipeso da un monsone che ha provocato troppa pioggia e inondazioni, da cui la distruzione del 35% dei raccolti e il triplicare dei prezzi. E così le cipolle hanno fatto piangere gli indiani prima ancora di essere pelate. Maggior produttore mondiale di cipolle, l’India ne è tradizionalmente anche un esportatore: due milioni di tonnellate nel 2018. Il governo ha reagito alla crisi vietando l’esportazione, il 29 settembre. Così il problema è ricaduto anche sui Paesi vicini: in particolare il sovraffollato Bangladesh, che importava 1,2 milioni di tonnellate equivalenti al 75% del suo fabbisogno. I prezzi sono saliti del 700%, e lo stesso primo ministro Sheikh Hasina ha fatto sapere che aveva detto al suo cuoco di toglierle dal menu. Problemi simili in Nepal e Sri Lanka. I contadini indiani dicono che se il governo vuole evitare di questi problemi piuttosto che vietare l’export dovrebbe risolvere una serie di problemi a monte: dall’indebitamento dei produttori alla fissazione di prezzi minimi che i distributori dovrebbero purgare, alla creazione di sistemi di immagazzinamento efficaci. Se no, avvertono, le cipolle continueranno a far piangere l’India.
Strozzature strutturali sono anche quelle che sotto la definizione generale di “Costo Brasile” hanno impedito il salto definitivo durante il boom di Lula, e hanno poi contribuito alla crisi che ha affondato la sua “delfina” Dilma Rousseff. Assieme a un eccesso di burocrazia e di statalismo nel Costo Brasile c’è anche la corruzione galoppante che ha portato Lula in galera, Dilma all’impeachment, anche il successore di Dilma Michel Temer in carcere, ed ha poi favorito l’elezione di Jair Bolsonaro. Il liberista Paulo Guedes all’Economia e il “Di Pietro brasiliano” Sérgio Moro a Giustizia e Sicurezza Pubblica sono appunto i principali assi della manica del governo, anche se il presidente ha infilato tutta una serie di altri problemi che va dagli incendi in Amazzonia allo scandalo in cui è stato coinvolto figlio Flávio o alla rottura col suo stesso partito. Ben sei ministri sono stati cambiati, e c’è stato pure il rischio di uno scontro con Moro, della cui popolarità inossidabile mentre la sua si deteriora Bolsonaro inizia a essere geloso.
Il governo assicura comunque che questo sarà l’anno del decollo, con una previsione della Banca Centrale di un +2,3% che per l’Asia sarebbe un disastro ma in Occidente è sempre invece ragguardevole e in Brasile permetterebbe finalmente di uscire da un ciclo di recessione stagnazione iniziato dal 2014. Guedes, anzi, a Davos ha promesso addirittura il 2,5. C’è però il dubbio se anche qui non arriverà il contraccolpo del coronavirus, dal momento che è la Cina il primo partner commerciale del Brasile. Fitch ha poi appena spiegato che la ambiziosa riforma pensionistica fatta dal governo va nel senso giusto ma gli effetti positivi i vedranno solo tra alcuni anni; nel frattempo l’economia reale non va bene, e il quadro politico resta fragilissimo. Appeso come è a indagini della magistratura che possono dinamitare qualsiasi maggioranza.
Un problema anche in Sudafrica, dove in teoria l’African National Congress mantiene un comodo vantaggio in Parlamento, ma di fatto il partito già di Mandela è turnato da quei regolamenti di conti interni in base ai quali nel 2009 il presidente Thabo Mbeki fu rimosso con colpo di mano di Jacob Zuma, e nel 2017 lo stesso Zuma è stato rimosso da impeachment e sostituito da Cyril Ramaphosa. Corrotto, demagogo, poligamo, accusato di stupro, Zuma è stato tacciato di essere costato al Paese l’equivalente di 83 miliardi di dollari. Accusato di frode, ricettazione e riciclaggio per avere accettato 783 pagamenti illegali dalla società di armi francese Thales, ha rifiutato di presentarsi al tribunale di Pietermaritzburg, che ha allora spiccato mandato di arresto. Lui ha risposto postando su Twitter una foto mentre sparava con un fucile.